“Il diavolo a Fiorenzuola”, l’uomo che ha “soggiogato” due studenti, lo “pseudoartista pervertito”. Così Aldo Braibanti veniva definito nei titoli a effetto e nei resoconti scandalistici che accompagnarono, nel 1968, proprio l’anno chiave della contestazione, un clamoroso processo per plagio ai danni del poeta e intellettuale, condannato a nove anni di reclusione (ne scontò due). Un caso che ha il sapore della caccia alle streghe, un episodio ‘dimenticato’ che un documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese ora riaccende.
In anteprima alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro – il 27 agosto in Piazza del Popolo, preceduto da un incontro a cui prenderanno parte, oltre ai registi, il direttore artistico Pedro Armocida, Edoardo Camurri e Fabio Canino – il film, che il 13 ottobre aprirà il Florence Queer Festival, non si concentra solo sul processo, rievocato attraverso il duetto fra gli attori Fabio Bussotti e Mauro Conte, protagonisti della versione teatrale, ma ambisce a ricostruire a tutto tondo la figura di questo intellettuale eretico, maestro di Carmelo Bene e complice di Alberto Grifi, precursore di Pasolini, amico di Piergiorgio e Marco Bellocchio – che a buon diritto potrebbe dedicargli un film – come di Sylvano Bussotti.
Nato nel 1922, antifascista e sperimentatore, saggista e poeta, scienziato e mirmecologo (studioso delle formiche), era una figura unica, appartata ma al centro di importanti triangolazioni artistiche. Fatale fu la sua relazione d’amore con Giovanni Sanfratello, che aveva introdotto nella sua cerchia incoraggiandolo alla pittura. I familiari del giovane – ultracattolici e di estrema destra – non accettarono il legame tra i due uomini e accusarono Braibanti, rispolverando il reato di plagio, creato dal Codice Rocco e mai utilizzato prima. Un processo politico costruito ad arte su accuse infondate e con testimonianze estorte, mentre Giovanni veniva internato dai suoi in ospedale psichiatrico e sottoposto a decine di elettroshock fino a svuotarne la personalità. Una vicenda paragonabile solo al processo a Oscar Wilde, ma con un secolo di ritardo.
Avete preso le mosse dallo spettacolo allestito a teatro da Palmese nel 2017. Come avete lavorato a espandere quella visione creando una polifonia di voci e testi che ricostruisce anche il clima dell’epoca?
Palmese. Per me tutto parte da studi decennali sulla figura di Aldo Braibanti, che mi hanno portato a scrivere una drammaturgia basandomi sugli atti processuali, tra l’altro difficili da recuperare. Lo spettacolo era incentrato sulla vicenda giudiziaria, ma avevo voglia di allargare lo sguardo. Lo stesso Braibanti non voleva essere ricordato solo per il processo. Quindi abbiamo cercato di restituire l’idea di un caso esistenziale, poetico e letterario. Ci è piaciuto lasciar parlare le persone che hanno collaborato con lui.
Giardina. Lo spettacolo mi colpì molto, così è nata la proposta di un documentario che ci ha permesso di arricchire il discorso, trovando materiali di cui non sospettavamo neppure l’esistenza. Abbiamo scoperto Braibanti sperimentatore di cinema: forse ha girato anche un film che è andato perduto. Con Alberto Grifi c’è stata una lunga amicizia e una collaborazione affettuosa. Aldo è stato una personalità complessa. Lo spettacolo è rimasto nel film, indispensabile per far rivivere l’atmosfera di quel processo.
Braibanti ha subìto una sorta di damnatio memoriae nella cultura italiana.
Palmese. Era un appartato, un precursore, un profeta, la vicenda giudiziaria l’ha inghiottito e ha superato il suo lascito culturale. Oggi è in corso una catalogazione del suo archivio e i suoi libri di poesia sono riscoperti. Forse questo film è la prima luce che si accende, il primo tassello di un’opera di recupero.
Giardina. Le parole di Lou Castel o Carmelo Bene danno la misura della sua influenza in quegli anni. Castel, ad esempio, racconta di come Aldo abbia cambiato il suo modo di recitare, di come in una scena di Grazie zia abbia applicato un gesto della mano al personaggio, un lavoro sul corpo molto moderno, usato anche dall’Actors’ Studio. Bene dice di aver imparato a leggere i versi da Braibanti. Alessandra Vanzi spiega come sia stato il primo in assoluto nella sperimentazione teatrale. Il suo libro Le prigioni di Stato, pubblicato da Feltrinelli, è tuttora interessante. Il suo discorso ecologista era avanti di 50 anni.
Quale fu il ruolo della politica nel processo?
Palmese. Braibanti aveva fatto la Resistenza, poi nel ’48 si è allontanato dal Pci, prima dei fatti d’Ungheria. Era allergico al centralismo democratico e ha preferito la sua indipendenza. Quando è stato colpito dalla destra, non ha avuto quindi sponde neanche da sinistra. Nessuno aveva la possibilità di rivendicare questa figura e poi anche il Pci aveva problemi con l’omosessualità. Solo i radicali e in particolare Marco Pannella si batterono strenuamente e subirono anche un’accusa di calunnia e diffamazione.
Molti sono i punti di contatto tra la sua vicenda e quella di Pasolini. Intellettuale scomodo, omosessuale, voce profetica, “eliminato” violentemente.
Palmese. Nato negli anni ‘20, già da ragazzino, durante il fascismo, Aldo invitava alla ribellione con un volantino. Ha detto cose che Pasolini dirà anni dopo. Era pacifista, contrario all’antropocentrismo, ecologista, nutriva un grande amore per la libertà.
Il suo fu un processo all’omosessualità.
Palmese. Braibanti disse di sé: “Sono stato l’utile idiota per intimidire tutti gli intellettuali”. Fu un processo per far arretrare le idee di libertà: l’omosessualità veniva descritta come una pratica turpe. E’ un’Italia retrograda che ancora non ci lasciamo dietro. Adesso non si riesce a fare la legge contro l’omofobia. Quell’Italia è ancora presente nei politici che guardano al passato, che parlano di famiglia naturale.
Giardina. Il PM lo definì “omosessualmente intellettuale”, una frase che unisce il disprezzo per gli intellettuali e quello per gay.
Quasi immediato il rimando alla vicenda di Oscar Wilde, però settant’anni dopo.
Palmese. In Inghilterra l’omosessualità era reato, in Italia no perché Mussolini diceva “non esistono gli omosessuali nel nostro paese”. Quindi, per colpire una coppia di uomini, hanno dovuto recuperare questo reato di plagio per il qualche mai nessuno era stato condannato. Dopo tanti anni ci sono ancora psichiatri e parroci che teorizzano teorie riparative per “guarire” i gay, non è una storia del passato, ma qualcosa che va raccontato sempre alle nuove generazioni.
Giardina. Giovanni Sanfratello è la vera vittima di questa vicenda, la sua vita fu completamente distrutta. Aldo con la sua mitezza era d’acciaio, si è chiuso in se stesso ma ha continuato a lavorare, a produrre; Giovanni, dopo il manicomio, non riusciva più a disegnare, a dipingere. Accettò di tornare nella sua famiglia che odiava e venne sottoposto a un decalogo che suona atroce: non poteva leggere libri che non avessero almeno 100 anni, non poteva amministrare denaro, uscire la sera, avere conoscenze che non fossero condivise dai suoi genitori.
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