Gianni Zanasi è tornato a Venezia, un bel po’ di anni dopo, con una commedia sulla famiglia italiana, le sue ipocrisie e la sua inamovibilità: Non pensarci, selezionata dalle Giornate degli autori e diventata ben presto uno dei casi del festival. “Una bella collocazione, sicuramente, perché mi piace andare dove mi accolgono con calore e l’entusiasmo di Fabio Ferzetti mi ha conquistato”, dice il regista, quarantaduenne, emiliano di Vignola, studi di filosofia e un corso con Nanni Moretti. Dopo Nella mischia e A domani, dove prevaleva uno sguardo documentaristico e in presa diretta con la realtà, ha virato verso uno stile più “scritto”, anzi proprio scritto addosso agli attori: Valerio Mastandrea innanzitutto, che secondo Marco Müller si muove come un Jerry Lewis italiano, e poi Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Caterina Murino, Teco Celio, Gisella Burinato, Dino Abbrescia, Paolo Briguglia, Paolo Sassanelli. “A volte si usa la verità per costruire una finzione, altre volte si usano le bugie per dire la verità, il rapporto tra vero e falso è ambiguo e complementare come quello tra materia e antimateria”, dice l’autore in tono sempre un po’ scherzoso. E aggiunge: “In questo caso ho puntato sulle caratterizzazioni, ma quello che mi stava a cuore era soprattutto coinvolgere emotivamente il pubblico e non restare a livello intellettuale”. Non pensarci racconta dunque la storia di Stefano Nardini, il rampollo fricchettone di una famiglia di industriali delle visciole sotto spirito che ha lasciato gli agi di Rimini per il fare il musicista punk-rock a Roma. Qualche copertina di “Mucchio selvaggio”, tante serate e un disco in perenne gestazione. A trentacinque anni compiuti, il nostro eroe si trova in una stasi creativa ed esistenziale che lo costringe a tornare a casa dove fratello, sorella, padre e madre sono più esauriti di lui.
“A domani” è del ’99, il documentario “La vita è breve ma la giornata è lunghissima” del 2004: come mai c’è voluto tanto tempo per arrivare a questo lungometraggio.
In Italia c’è stata a lungo una situazione culturalmente negativa rispetto alla libertà d’espressione e tante opere prime, seconde e terze non si sono fatte semplicemente perché nessuno voleva produrle.
Anche “Non pensarci”, del resto, è autoprodotto.
In parte sì, con la Pupkin, la società che ho formato con Rita Rognoni e Lucio Pellegrini e che si chiama come il personaggio di Bob De Niro in Re per un notte. Poi c’è una coproduzione con Beppe Caschetto e con La7. Ma non mi lamento: il basso budget mi ha dato una grande autonomia.
Come definirebbe la recitazione di Valerio Mastandrea? Anche per lei ricorda Jerry Lewis?
Jerry Lewis lo identifico soprattutto come un buffo personaggio con le gambe storte di vecchi film in bianco e nero, ma forse qualcosa c’è, di lui come di Buster Keaton o Massimo Troisi. Quello di Stefano Nardini è un personaggio sempre in contropiede rispetto a ciò che gli accade intorno. Valerio, nel ricrearlo, ha cercato di liberarsi dalle convenzioni e dalla retorica, anche dall’accento romagnolo, visto che il personaggio è nato a Rimini ma vive da tempo a Roma.
Ancora una volta ha cercato di cogliere l’atmosfera della provincia italiana.
Ho usato la commedia, che è il genere più libero in assoluto, per afferrare un’aria di questi ultimi anni, che non si ritrova solo in provincia: un aumentare delle nevrosi e delle piccole paure, dalla paura di non essere vestiti bene a quella di prendere la multa. Timori che condizionano il quotidiano e che rendono le persone infelici. Poi basta poco e si aprono addirittura delle voragini.
Come ha scelto le musiche che vanno dalla Traviata alla vecchia hit di Ivan Graziani “Agnese dolce Agnese”?
La Traviata era perfetta, coglie lo spirito che sta sotto la storia e gioca molto sulla messinscena familiare. La canzone di Graziani, sentita per caso quando lavoravamo al montaggio, contiene il sentimento di aver perduto irrimediabilmente qualcosa, uno stato d’animo inaspettato nel protagonista.
Vi siete divertiti anche a mandare a quel paese i delfini del delfinario di Rimini.
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