E’ uno dei più forti candidati alla Palma d’Oro, I diari della motocicletta, il film di Walter Salles sul viaggio ormai leggendario compiuto nel 1952 dal giovane Ernesto Guevara e dal suo compagno Alberto Granado, attraverso il continente latino-americano.
Prodotto tra gli altri da Robert Redford e Daniel Burman, I diari aveva già avuto la sua turbolenta prima proprio al Sundance, dove era stato accolto molto calorosamente, mentre a Berlino si era visto il making of del film, realizzato da Gianni Minà, In viaggio con Che Guevara, che Rai Tre manderà in onda il 23 maggio. L’origine del film è curiosamente infatti molto italiana: fu proprio Minà a cercare otto anni fa di montare il progetto del film, con l’aiuto del regista argentino Luis Puenzo e di Ettore Scola che collaborò alla sceneggiatura.
I diari della motocicletta, in uscita in Italia venerdì 21 maggio distribuito da Bim, ha avuto una proiezione molto speciale a Cuba davanti alla famiglia del Che, quella di Granado e alla presenza di Fidel Castro, che pare abbia molto apprezzato l’opera di Salles.
Abbiamo incontrato Gianni Minà a Cannes per parlare della storia produttiva del film.
Come è nato il progetto?
Nel 1993 ero in vacanza a Cuba con Gabriele Salvatores quando Fidel Castro ci venne a trovare e ci raccontò di un diario scritto dal Che su quel viaggio.
Mi chiese anche di incontrare Aleida, la vedova. Superai una specie di esame sul Che e ottenni i diritti del diario, che fino allora era stato pubblicato soltanto da una piccola casa editrice spagnolo-cubana con il titolo che gli aveva dato lo stesso Guevara, Notas de viaje.
Grazie a me, Feltrinelli lo fece uscire poi in tutto il mondo con il nuovo titolo di I diari della motocicletta.
Nello stesso tempo cercai di montare la produzione di un film con la regia di Luis Puenzo, con cui scrissi una pre-sceneggiatura in collaborazione anche con Ettore Scola. Nonostante questo, non sono riuscito a trovare un produttore, Rai in testa, disposto a finanziare il progetto.
Era troppo costoso girare in territori cosi’ impervi e vasti come l’Argentina, il deserto di Atacama in Cile, il Perù andino.
Dopo otto anni di inutili tentativi un giorno mi telefona Michael Nozik, della produzione di Redford, dicendomi che erano interessati al film: mi rimisi al lavoro e Redford chiamò Walter Salles, di cui aveva prodotto Central do Brazil.
Come è stata la collaborazione con Salles, avevate le stesse idee sul film?
Per niente. Salles voleva girare la storia in senso cronologico, rifacendo esattamente il percorso del Che con Granado, partendo da Buenos Aires per arrivare fino in Venezuela, dove i due si separano.
Mi disse che avrebbe voluto far rivivere agli attori quella stessa esperienza.
La sceneggiatura venne riscritta da Josè Rivera, mentre io ho fatto la supervisione storica, mettendo a disposizione del regista l’enorme materiale
che ho realizzato con le interviste alla famiglia Guevara e a Granado.
Qual è l’immagine del Che che restituisce questo film?
Il film di Salles ci è sembrato, a me, ai membri della famiglia Guevara e a Granado, molto riuscito nel tentativo di dare completezza alla figura di Ernesto Guevara, che non fu soltanto un comandante rivoluzionario, ma anche un fine pensatore.
La sua umanità, i suoi ideali e valori profondamente radicati nell’amore per gli altri, sono esaltati in un film che racconta una storia romantica, la presa di coscienza di un giovane uomo guidato da un forte senso etico e il suo incontro con l’ideologia marxista insegnatagli dal Dottor Pesce, medico argentino di origini italiane che aveva conosciuto Gramsci e che mandò i due giovani viaggiatori al lebbrosario di San Paolo come volontari, un’esperienza che cambiò le loro vite.
Redford mi ha detto di essere molto contento del risultato, e molto fiero di aver fatto un film così romantico e così pieno di ideali.
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