VENEZIA – Gianni Amelio è oggi allo spazio Luce Cinecittà per ricevere il Premio Bianchi dai giornalisti cinematografici, consegnato da Laura Delli Colli che modera l’incontro. Naturalmente, l’attenzione è tutta rivolta a L’intrepido, il prossimo film del regista di cui, proprio qui al Lido, sono stati rivelati il titolo e il protagonista (Antonio Albanese), e che sarà prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti. “Quando dico che il protagonista sarà Albanese – scherza Amelio – mi chiedono se non sia il seguito di Lamerica. Questo però è un Albanese con la A maiuscola. In tutti i sensi. E’ uno dei nostri più grandi attori, doveva partecipare ad altri miei due film ma poi gli ho preferito altri colleghi. Questo film ho voluto scriverlo appositamente per lui, e Degli Esposti ha accettato di produrlo in mezz’ora, dopo che gli ho raccontato il progetto in un ristorante. Avesse avuto una penna a disposizione, avrebbe scritto il contratto su un tovagliolo”.
La seconda domanda, d’obbligo, riguarda le polemiche sorte in relazione all’irritualità del suo ‘licenziamento’ dalla direzione del Festival di Torino. “Le polemiche non sono nate da me – risponde – il problema è che certe persone soffrono troppo di ‘timidezza’, ammesso che la timidezza esista a questo mondo. Quest’anno scade il mio quarto mandato. Sarebbe bastato rivolgermi una domanda: ‘lei continuerebbe, se il TFF glie lo chiedesse? Avrei risposto no, grazie sono impegnato. Invece, apro un giorno il giornale e leggo che il festival lo farà un altro regista. E’ normale e giusto, sarei stato il primo a proporlo. E scusate l’immodestia, io penso proprio di averlo fatto bene, questo festival, e lo farò bene anche quest’anno, perché amo il pubblico di Torino. E’ un pubblico che non cerca le star e gli autografi, né il tappeto rosso. Punto sui film, perché il pubblico di Torino è anche costituito da registi giovani che vanno lì per imparare. Cerco dei film che fungano anche da insegnamento. Quello che abbiamo premiato l’anno scorso era costato 40.000 euro. Il premio era di 30.000”.
Poi, c’è l’occasione di parlare del passato. Quello recente, Il primo uomo, “un film che mi è costato moltissima fatica, si poteva fare in molto meno tempo, ma il produttore francese si faceva attendere e io soffrivo come un cane, perché non lavoravo. Lo stesso produttore lo ha avuto Laura Morante – interprete tra l’altro di un capolavoro di Amelio, Colpire al cuore, NdR – che aveva lo stesso produttore per Ciliegine. A un certo punto ha dovuto perfino metterci del suo, economicamente parlando, cosa che io non reputo moralmente sana. I ruoli debbono essere chiari e il regista non deve pagare per il suo film. Io non lo farei mai. Piuttosto, coltiverei barbabietole”. Poi ci sono i classici. Lamerica, anche in relazione alla presenza al festival de La nave dolce, film di Vicari su analoga tematica: “Non l’ho visto, ma mi intriga il titolo”, dice Amelio. La nave in questione, la Vlora, che approdò a Bari nel 91 con a bordo ventimila albanesi, trasportava solitamente zucchero.
“La sequenza di approdo che ho fatto io per Lamerica mi è costata sangue e sudore – racconta – perché lavoravo con 3.500 comparse che in realtà erano veri albanesi che volevano andare a Bari sul serio. Il problema era come fare a tornare indietro. Ma me la sono cavata. Sono partito con 3.500 persone e l’ultimo giorno ne avevo solo 50. Mi ero riservato per l’ultimo i primi piani, dove non servivano così tante persone. Comunque, è stata l’ultima sequenza realizzata, la più difficile. Avevo già il film montato e in quelle parti mettevamo un cartello con scritto ‘missing scene’. Il ragazzo che sorride alla fine del film è mio figlio, io l’ho adottato e mi ha reso nonno di tre nipoti. Per me quella nave è stata dolcissima”.
Colpire al cuore, con la presenza a sorpresa dell’attore Fausto Rossi, mai più visto al cinema dopo quell’esordio eccezionale: “Fausto me l’ha consigliato un amico belga, ero disperato perché a quindici giorni dall’inizio delle riprese non avevo il mio attore. L’ho incontrato ed è salito a bordo senza provino. Il colpo di fulmine è stato quando l’ho visto recitare con Laura e Trintignant, che credo abbia anche aiutato molto, perché non capiva la realtà italiana e il termine ‘terrorismo’ gli pareva esotico. Grazie a lui abbiamo cominciato ad aggiungere battute, che davano nuove sfumature. Non più, o non solo, un figlio che considera suo padre un cattivo maestro, ma anche un figlio geloso di un nuovo amore del padre. Anche su quel film ho sofferto molto, e proprio per questo lo amo moltissimo, come un figlio nato da un parto travagliato. Mentre lo giravo pensavo costantemente di stare sbagliando, poi ho capito che il problema era il tema, che mi era fin troppo vicino. Ma soprattutto oggi, che il film ha perso la sua specificità di unico film sugli anni di piombo, mi rendo conto che era soprattutto una storia sul rapporto tra un padre e un figlio nel clima drammatico dei primi anni 80. Lo capì bene Olivier Assayas, che sui cahiers scrisse: ‘Ad Amelio interessa il terrorismo come a Bresson interessava la resistenza. Altri definirono il film ‘pernicioso’, una critica che mi offese tantissimo e che mi fece sbottare in conferenza stampa. Addirittura c’è chi interpretò una scena in cui Fausto usciva dall’inquadratura verso sinistra come un gesto politico, ma era solo il verso in cui andavano le macchine”.
Rossi racconta invece il motivo per cui ha rinunciato a una carriera nel mondo del cinema: “Sembra strano, ma mi sono intimorito. Mi hanno offerto due o tre parti ma mi sono spaventato, ero giovane, non sapevo se sarei stato in grado di farlo. Dal liceo mi sono ritrovato all’improvviso in questo mondo emozionante, ma molto faticoso”.
“Mi ha mandato una sceneggiatura una volta – dice Amelio – per chiedermi che ne pensavo. Io gli ho detto che a me non piaceva. Lui il film non l’ha fatto, al suo posto ci è andato un attore che poi è diventato famosissimo, non diremo chi”.
Poi tanti altri aneddoti, puntellati con simpatia da Delli Colli ed Enrico Magrelli, che con la cineteca nazionale ha recentemente dedicato all’autore una retrospettiva. Dall’autografo fatto una volta a uno sconosciuto ragazzo spagnolo di nome Pedro, che poi diventò un regista apprezzato (era Almodovar), a quella volta in cui, alle giornate del cinema di Santa Margherita, Amelio si appostò a una proiezione del suo La città del sole organizzata in un infausto orario mattiniero per scoprire chi si addormentava durante il film: “Pietro Bianchi ha ronfato per tutto il tempo – racconta – Non dico che fosse colpa sua, era un maestro della critica, ma l’orario era davvero crudele. Così, il pomeriggio, andai a sbirciare in sala stampa. Ero curioso di sapere cosa avrebbe scritto. Era lì, piegato sulla sua Olivetti, così immaginai che stesse lavorando su altri film, dato che il mio sicuramente non l’aveva visto. Il giorno dopo mi chiama il produttore furente, accusandomi di aver presentato una copia diversa da quella pattuita. E’ stato davvero un brutto quarto d’ora, ma io ero davvero in buona fede, non capivo perché ce l’avesse così tanto con me. Finché non lessi la recensione di Bianchi: aveva preso degli estratti, anche parecchio forti, dall’opera originaria di Campanella, e ci aveva messo su l’articolo, parlando del film come di ‘un capolavoro contro la Chiesa’. L’avesse stroncato, mi sarei pure arrabbiato, ma invece gli rendo lode, era il rappresentante di una certa critica che con la cultura sapeva ovviare anche a questi incidenti di percorso. Del resto, le sue recensioni erano loro stesse pezzi di cinema, mi ha fatto capire Antonioni”.
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