VENEZIA – La guerra ma anche la pandemia, temi contemporanei e drammatici, sono al centro del nuovo film di Gianni Amelio, Campo di battaglia. Il regista 80enne torna in concorso a Venezia 81, due anni dopo Il signore delle formiche, con un atto d’accusa contro la barbarie di ogni conflitto liberamente ispirato al romanzo La sfida di Carlo Patriarca, un libro trovato su una bancarella e letto quasi per caso. La narrazione si apre con una scena impressionante, un cumulo di cadaveri in cui un soldato cerca oggetti di valore, valore anche minimo, come quello di un pezzo di pane, finché non si rende conto che sotto i corpi in decomposizione c’è qualcuno che è ancora vivo, una mano che spunta dalla carne. Da lì la vicenda si sposta in un ospedale militare dove incontriamo un trio di personaggi quasi complementari: Stefano (Gabriel Montesi), di famiglia altoborghese, è un ufficiale medico integerrimo e duro che scova imboscati e autolesionisti rimandandoli al fronte senza tanti complimenti. Giulio (Alessandro Borghi) è invece il collega con la passione per la ricerca convinto che ogni mezzo sia lecito per aiutare i soldati a tornare a casa, anche a costo di infliggere gravissime mutilazioni. Anna, che entrambi conoscono dai tempi dell’università, è una volontaria della Croce Rossa che non può esercitare la professione in quanto donna e che si trova in qualche modo divisa tra due visioni del mondo. Lo scenario è quello della prima guerra mondiale, con il suo carico di morte e disperazione: siamo nel 1918, l’anno che segue a Caporetto e che porterà l’Italia alla vittoria ma anche l’anno della spagnola, l’influenza che provocò altrettante vittime, tra i civili, rispetto al conflitto armato, una pandemia di cui si è parlato molto paragonandola al Covid.
“La prima guerra mondiale – sottolinea Amelio – fu una guerra quasi fatta ‘a tavolino’ dove poi l’Italia si è seduta insieme agli alleati ma è stata combattuta e vinta con il sacrificio di centinaia di migliaia di innocenti, civili e militari. Erano ragazzi di 19 e 20 anni, che non avevano addestramento e che per la prima volta si trovavano a combattere, corpo a corpo, con in mano un fucile”.
Campo di battaglia sceglie di mostrare la guerra senza mai mostrarla, senza trincee e sparatorie. “Le immagini di guerra – spiega il regista calabrese – sono usurate e sembrano paradossalmente irreali perché le vediamo troppo. Tutte le sere la tv manda in onda bombardamenti, feriti, morti, che siano da Gaza o dall’Ucraina. Le immagini di morte vengono consumate in situazioni che non sono quelle della sala, che è un tempio dove si entra togliendosi il cappello e stando attenti a ricevere le emozioni. A casa c’è la tv sempre accesa e non siamo in grado di ragionare, perché subiamo le emozioni. Questo è un film che non va visto in tv, credo che qui ci sia la guerra più che in un film di guerra, perché è un film sulla guerra e questo aumenta la sua forza emotiva. Non è predicatorio, ma vive sulla pelle mia e dei miei personaggi”.
Il film, dice il regista, “tocca dei sentimenti che vanno al di là del tempo. Toccano cose che ci riguardano e pensieri che abbiamo fatto tante volte e domande alle quali forse non sappiamo dare ancora una risposta. Ma un film non basta a fermare le guerre che nascono dalla bramosia di potere”.
Sul perché il cinema italiano scelga spesso di raccontare il passato, Amelio risponde: “Forse dipende dal fatto che ho un’età, non penso al passato con nostalgia, ma, avendolo vissuto, probabilmente lo conosco meglio, e quindi scelgo di parlare di cose che mi appartengono. Non ho fatto la prima guerra mondiale, sono nato durante la seconda, però, in qualche modo, lo sguardo che si rivolge al passato è sempre rivolto al futuro”.
“Per me era importante raccontare una storia con personaggi estremamente rigorosi e precisi ma che non dessero la possibilità allo spettatore di capire da che parte stare, chi fa la cosa giusta e chi sbagliata. Questo ci permette di uscire dalla sala e porci la domanda su cosa avremmo fatto noi e questo nel cinema è molto importante”, dice Alessandro Borghi. “Quanto è umano levare la vista a una persona promettendogli la salvezza? Cosa direbbe la madre o il padre di questo soldato?”, si chiede Borghi, senza darsi una risposta. E confessa che grazie ad Amelio ha ritrovato la voglia di fare cinema: “In giro ci sono tanti film brutti, esco da una serie lunga e faticosa come Supersex, adesso ho girato Il prigioniero di Alejandro Amenabar”. Per l’attore di Sulla mia pelle e Le otto montagne, la forza del film sta proprio nella sua ambiguità: “Cerco di essere una brava persona, ma commetto errori come tutti. La soggettività delle nostre azioni dipende dal contesto e dalle persone che frequentiamo. L’unica salvezza è interrogarci continuamente su cosa sia giusto fare”.
Una delle ricchezze del film è l’intreccio di dialetti parlati dai soldati, dal siciliano al valdostano, dal pugliese al piemontese. “Ho avuto tre attori meravigliosi come Borghi, Montesi e Rosellini, e un gruppo sterminato di attori che dicono anche solo una battuta, ma che mi sono rimasti nel cuore. Per esempio il soldato calabrese che scrive una lettera al prete del suo paese per dire che gli ha insegnato le preghiere e invece lui vorrebbe bestemmiare. Ho voluto scavare nelle regioni italiane e ho scoperto questi interpreti meravigliosi ciascuno con la sua lingua”. Anche per Borghi, “i dialetti fanno parte di una serie di sfide che mi piace affrontare per cercare di dare un’identità molto forte ai personaggi”.
Sulla attualità del film, Amelio spiega: “Ho un modo di lavorare non condiviso da altri registi: io non penso, ma sento con la pancia, con le viscere. Non racconto i temi che vanno di moda, scrivo e riscrivo la sceneggiatura e continuo a modificare sul set, consegnando agli attori dei foglietti la mattina delle riprese”.
Un emozionato Montesi (Favolacce, Sei fratelli) racconta: “Amelio mi ha insegnato tanto, mi ha fatto capire cosa sia un’inquadratura, che per un attore è fondamentale”. “Anna è una donna che ha studiato come medico, ma non si è laureata per qualche ragione misteriosa e dice di aver messo la testa a posto – dice Federica Rosellini (Dove cadono le ombre, Confidenza) – Il mio augurio è che le donne mettano meno la testa a posto e che possano introiettare sempre meno un sistema vessatorio rispetto al mondo femminile. Purtroppo le donne sono schiacciate da un sistema che a volte ci fa credere di non essere abbastanza forti o capaci per intraprendere determinate battaglie o per perseguire le nostre aspirazioni”. Quanto al messaggio del film, secondo Rossellini, “è importante avere una certa distanza rispetto all’evento storico, perché la distanza e il tempo ci permettono di capire che cosa non abbiamo imparato”.
Scritto con Alberto Taraglio (“con lui lavoro da cinquant’anni”, afferma Amelio) e prodotto da Simone Gattoni per Kavac Film con Rai Cinema, Campo di battaglia uscirà il 5 settembre con 01 dopo il concorso di Venezia.
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