Gianfranco Rosi registra le confessioni di un assassino


VENEZIA – Una raffica di parole che feriscono le orecchie. Schizzi tratteggiati in modo convulso che portano alla mente nefandezze e paure. La disperazione di chi è sopravvissuto ad un inferno reale e ora vuole tenere lontani i fantasmi che lo tallonano. E’ potente come aveva promesso Mueller presentando Venezia 67, El sicario Room 164, nuovo lavoro di Gianfranco Rosi, passato ieri sera nella sezione Orizzonti. Basato sulla storia scritta dal giornalista americano Charles Bowden, il film è una lunga intervista ad un killer messicano che ha ucciso e torturato centinaia di persone. Rosi, al suo terzo lavoro dopo gli acclamati Boatman e Below Sea Level, ha intervistato per due giorni il sicario, dall’identità sconosciuta ma con un passato da comandante della polizia statale messicana, per scoprire a fine riprese che proprio in quella stanza, la 164, dove giravano e dove il regista alloggiava, si erano consumati moltissime atrocità per mano del killer. Al soldo dei signori della droga, l’uomo su cui pende una taglia da 250mila dollari, si muove indisturbato al confine tra Usa e Messico e non è mai stato neanche sospettato per uno dei tanti crimini commessi. Una vicenda cruda, molto applaudita dalla stampa, che nello stile del cinema veritè mostra l’inquietante lucidità di un uomo e i suoi momenti di cedimento. Un film con un’intensità e una immediatezza che hanno sorpreso lo stesso Rosi, come lui stesso ci ha raccontato.

Nel film vediamo il sicario con il volto coperto da una sorta di velo mimetico disegnare e scrivere convulsamente mentre parla. Come ha capito in che modo rendere irriconoscibile la sua identità e da dove nasce la scelta registica di inquadrare il quaderno degli appunti del sicario?
Ero in un negozio di articoli di caccia e per caso mi sono imbattuto in questi larghi cappucci di rete che mi sono sembrati la scelta migliore: il passamontagna non mi piaceva e oscurare un volto con luci e effetti era qualcosa che non mi convinceva oltre al fatto di essere troppo costoso. Quanto all’uso di disegni e scrittura mi sembrava una peculiarità personale del sicario che poteva ben prestarsi al film. Charles Bowden, che lo conosce bene, mi aveva avvertito che quando racconta fatti precisi, il sicario scrive, così ho sfruttato la sua grafomania per consentire agli spettatori di seguire al meglio il filo degli eventi raccontati.

Il documentario nasce sull’articolo di “Harper’s Magazine” di Bowden. Cosa pensa che abbia aggiunto alla confessione la versione filmica rispetto a quella letterale?
Sono stato solo un testimone del suo desiderio di raccontare, un’esigenza che mi ha totalmente travolto. Quando l’ho incontrato la prima volta, avevo in mente un film diverso che intrecciava le storie di 4-5 personaggi. Poi mentre guardavo il montaggio del primo giorno di girato ho capito, insieme a Jacopo Quadri il montatore del film, che andava fatto tutto un altro documentario. Lui era l’unico protagonista e gli andava lasciato tutto lo spazio possibile. Ho iniziato quindi un lavoro di sottrazione decidendo di non usare nemmeno le riprese di esterni realizzate a in un mese e mezzo di soggiorno in Messico. Il sicario doveva avere tutto il tempo e il modo di lasciar andare il flusso dei pensieri e dei ricordi. In questo senso gli esterni non avevano più senso se non quello di ridursi a piccoli intermezzi, quasi dei sospiri del sicario emessi tra una raffica e l’altra di parole.

Hai mai pensato che il killer stesse mentendo, ingigantendo o minimizzando dei fatti?
No, perché il documentario nasce innanzitutto dall’esigenza di Charles di far capire ai lettori quanto il suo articolo fosse vero. Dubbi sull’autenticità di questa storia infatti erano già stati sollevati da qualche lettore del giornale ma io credo a Charles e alla sua capacità di cogliere il vero: è uno che ha lavorato 20 lunghi anni al confine tra Messico e Usa, che è stato col fiato sul collo dei narcos, che ha un’esperienza e un ‘intuizione incredibile sul questo territorio. Con il suo articolo lui voleva far capire qualcosa di più sul modus operandi dei cartelli della droga. Io, con il mio film ho provato ad aiutarlo.

Di cosa parlerà il suo prossimo progetto?

Vorrei provare a girare il mio primo film in Italia. Sto pensando ad un soggetto sul Grande Raccordo Anulare, un crocevia pazzesco di uomini e storie.

autore
06 Settembre 2010

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