Gianfranco Rosi: “In concorso a Berlino racconto l’olocausto del mare”

Unico italiano in concorso alla Berlinale, Fuocoammare, accolto con grandi applausi da un festival che ha messo il tema dei rifugiati al primo posto


BERLINO – Fuocoammare è il titolo di una delle canzoni trasmesse alla radio lampedusana dal dj Giuseppe… Fuocoammare è anche nei ricordi degli anni della guerra di nonna Maria, che racconta delle bombe mentre fuori si scatena il temporale con lampi e tuoni. Ma la guerra che si combatte oggi miete molte più vittime, anche se sono per noi come fantasmi: accade davanti ai nostri occhi, sentiamo ripetere il bilancio delle vittime, spesso nell’indifferenza o nel timore, con l’incapacità della politica di trovare soluzioni. Un olocausto contemporaneo che il film di Gianfranco Rosi, unico italiano in concorso a Berlino, accolto con grandi applausi e commozione, possibile candidato a un premio importante, racconta con l’attenzione a restare in bilico tra disperazione e ironia. Lo fa grazie alla scelta di guardare alla tragedia dei migranti con gli occhi dei lampedusani. Soprattutto quelli del piccolo Samuele Pucillo, un ragazzino dodicenne che sta crescendo sull’isola con la nonna e lo zio. Costruisce fionde e parla con gli uccelli, soffre di mal di mare, ha un difetto alla vista, un occhio pigro che si rifiuta di guardare. Tutto finisce per assumere accenti simbolici nella costruzione di Fuocoammare, che grazie al bel lavoro di montaggio di Jacopo Quadri dà eloquenza a immagini che hanno l’apparente casualità della vita. E poi c’è il dottor Pietro Bartolo, l’altro protagonista del film. E’ lui il medico dell’asl locale, cura i residenti come i profughi. Vive la sua missione umanitaria con estrema semplicità e non nasconde il dolore che continua a provare di fronte allo strazio di questi corpi che arrivano, quando arrivano, fiaccati dall’ipotermia, dalla fame, dalle ustioni provocate dalla nafta, soffocati nelle stive anguste e senza oblò dai gas di scarico o con l’impossibilità di partorire perché manca lo spazio vitale: “Ho visto tanti bambini morti, tante donne stuprate e incinte, sono cose che ti lasciano un buco nello stomaco – racconta qui a Berlino il dottore – Qual è la soluzione? Nei recinti non si mettono neanche gli animali. Non credo che un muro o un filo spinato possa fermare questa gente. Se li vogliamo fermare dobbiamo creare delle condizioni favorevoli nel loro paese perché nessuno lascia casa sua se non è costretto”. E aggiunge: “I lampedusani sono da premio Nobel, non si sono mai tirati indietro, hanno rischiato la vita per salvare i naufraghi”.

E’ stato proprio Pietro a convincere Rosi, reduce dal Leone d’oro per Sacro GRA, a fare questo film che sembrava impossibile. “Dopo tre settimane di sopralluoghi a Lampedusa – racconta il regista – avevo deciso di desistere. Una bronchite grave mi ha fatto conoscere Pietro. E lui mi disse: ti consegno questa chiavetta USB, guarda queste immagini e capirai che hai il dovere di fare questo film”. Dopo c’è stato un anno di immersione totale, il metodo che Rosi ha sperimentato negli altri suoi film, da Boatman a Below Sea Level, da El Sicario Room 164 a Sacro GRA. “Il 13 gennaio, quando eravamo già stati selezionati per Berlino, ho concluso con Pietro le riprese, anche se penso che un film così non finisce mai”. Fuocoammare sarà in sala con Istituto Luce Cinecittà e 01 Distribution dal 18 febbraio. 

E’ vero che doveva essere un corto di dieci minuti?

Sì, me l’aveva commissionato Luce Cinecittà e nasceva da un’idea di Carla Cattani. Doveva essere un film di dieci minuti che portasse in un’Europa pigra e complice un’immagine diversa di Lampedusa. Quando ho capito che non avrebbe mai potuto essere un film breve, ho consegnato una sinossi di 10/12 pagine che ha convinto i produttori – il Luce, Rai Cinema con il contributo del MiBACT e i francesi di Arte e Les Films d’Ici – a darmi la possibilità di trascorrere un tempo molto lungo a Lampedusa, dove ho fatto anche il montaggio. Sono rimasto lì da dicembre 2014 a gennaio di quest’anno.

Come è arrivato a superare la visione legata ai telegionali, l’idea dell’emergenza e dell’invasione?

Quando sono arrivato io il Centro di accoglienza era chiuso perché c’era stato un incendio e non c’erano sbarchi. Vivendo lì ho scelto di raccontare l’identità dell’isola, se avessi parlato subito dei migranti non avrei avuto l’intuizione di parlare anche di bambini, ad esempio. Peppino Del Volgo, il mio aiuto regista, mi ha aperto alla fiducia degli isolani. Ho incontrato Pippo, il dj, Zia Maria, e soprattutto Samuele: ho capito che attraverso il suo sguardo, ingenuo e puro, avrei potuto raccontare l’isola con maggiore libertà. Stavo filmando uno stato d’animo: l’occhio pigro di Samuele siamo noi che non vogliamo vedere; la sua difficoltà a respirare è la nostra ansia. Ma non una singola scena è costruita, nessun dialogo è scritto.

Per il cinema documentario affrontare la visione della morte reale di persone reali è quantomai rischioso. Quando ha iniziato a filmare i migranti, quale approccio ha scelto?  

Ho passato un mese su una nave militare e all’inizio non avevo filmato una singola immagine dei naufraghi, ma in quel mese ho conquistato la fiducia dei militari. Poi sono tornato di nuovo e stavolta è successo di tutto. Se la prima volta mi sarei sentito in imbarazzo di fronte alla tragedia, stavolta sono diventato testimone necessario e non voyeur. Sono arrivati i morti e me li sono trovato davanti, come è accaduto a quello che ha filmato per caso le Torri Gemelle. E’ stato il comandante a mandarmi nella stiva a filmare. Io non volevo ma lui mi ha detto: sarebbe come stare davanti a un forno crematorio e non filmare niente. Le immagini dell’Olocausto nazista ci sono arrivate solo alla fine della guerra, ma stavolta le vediamo giorno per giorno.

Mentre i lampedusani, che sono pescatori e uomini di mare, dimostrano una grande solidarietà con i migranti, le istituzioni sembrano lontane, assenti. 
Il film testimonia una tragedia in corso di fronte alla quale la politica non sta facendo nulla se non ergere i muri. 40mila persone sono morte in mare – e tra queste migliaia di bambini – e nessuno fa nulla. Era importante vedere i volti, gli occhi e avere questo contatto diretto con la morte. E’ importante il gospel che i nigeriani cantano nel centro di accoglienza, la loro testimonianza. L’Italia sta affrontando da vent’anni questa emergenza, ora la Germania se ne accorge e anche qui al festival c’è una grande attenzione al tema dei profughi. Un amico che vive da vent’anni a Berlino mi spiegava che la sinistra tedesca è terrorizzata da quel che succede e tutti sono contro la Merkel che invece cerca di fare qualcosa. Mi fa paura la manipolazione politica: “Apriamo ai siriani”. E tutti gli altri? L’Italia è stata in prima fila per salvare i naufraghi, ma se con Mare Nostrum arriviamo a 20 miglia dalla Libia perché non fare un corridoio umanitario e portare cinquecentomila, un milione di persone in salvo.

Considera Fuocoammare il suo film più politico?
E’ un film politico senza affermazioni politiche. Lo è a prescindere, come testimonianza di una tragedia che sta accadendo davanti ai nostri occhi e di cui siamo tutti responsabili. E’ una responsabilità mondiale. Queste sono persone che fuggono dalla fame, dalla carestia, dalla guerra e il mare diventa la loro tomba. Se non facciamo niente siamo responsabili di una mattanza.

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