Le immagini delle celebrazioni ufficiali e di Stato dell’Unità d’Italia nel corso del ‘900, il volto degli umili e di un’Italia contadina ormai scomparsa, le canzoni popolari di protesta e il patrimonio musicale orale. E poi i brani di poeti, scrittori e intellettuali, tra i quali: Leopardi, Arbasino, Abba, Isnenghi, Vassalli, Piovene, Sciascia, Bobbio, Montanelli e Vittorio Foa. Di tutto questo si compone ma che Storia… il film di Gianfranco Pannone, prodotto e distribuito da Cinecittà Luce, selezionato da Controcampo italiano e che ha avuto il patrocinio e il riconoscimento del Comitato per le celebrazioni del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia.
Avvalendosi di cinegiornali e documentari dell’archivio Luce, dagli anni ’20 agli anni ’80 ma che Storia… è un viaggio nel nostro Paese e nel controverso percorso unitario attraverso il difficile e spesso violento rapporto tra il potere, gli intellettuali e il popolo, che ha impedito, secondo Pannone, il formarsi di un sentimento nazionale condiviso.
Al di là degli anniversari il regista, attraverso un repertorio dall’affascinante valore antropologico, senza la voce narrante, indaga sulla nostra storia passata cercando di dare un senso a un presente che ci appare confuso.
Perché il titolo “ma che Storia…”?
Il film è critico nei confronti del processo unitario, anche se credo che vada mantenuto nonostante gli errori fatti. Allora ho voluto un titolo ambiguo che rimanda a un Paese complicato, con straordinarie pagine di storia e cadute. E questa complessità va raccontata sia con sguardo critico che con amore per un Paese che sento mio da Milano a Lecce.
Il suo film non contiene solo cinegiornali d’epoca che rappresentano il potere.
Oltre a questi documenti che ho lasciato con la loro colorimetria originale, ho anche scelto immagini dal valore antropologico ma con una colorimetria differente, più calda come le danze sarde, la sfilata manzoniana o quella dei contadini di Catania. Si tratta di documentari che sono al limite del neorealismo, ne sono debitori come le sequenze dell’eruzione dell’Etna.
Quanto materiale di repertorio ha visionato?
Almeno 200 ore di filmati e importante è stato il contributo del gruppo di ricerca guidato da Giovannella Rendi. All’inizio temevo che ci fosse troppo materiale celebrativo, ma alla fine il segreto stava nel suo utilizzo, nel comunicare quella astrattezza e estraneità del potere. E poi avendo lavorato già altre volte con l’archivio Luce, sapevo che si poteva ricavare dell’altro.
Che cosa d’altro?
E’ curioso come durante il fascismo vengano realizzati straordinari documentari etnologici perché il regime deve valorizzare il mondo contadino. Siamo alla fine degli anni ’20, quando la retorica di regime non è ancora all’apice. Documenti che non mi aspettavo di trovare, circa un terzo del film, e che hanno una verità che non trovi nei decenni successivi, nel dopoguerra. L’archivio Luce possiede una produzione straordinaria, un patrimonio di cronaca quotidiana. Penso per esempio ai documentari di denuncia sociale di Fernando Cerchio, Cecilia Mangini e Giuseppe Ferrara, realizzati al tempo del centrosinistra e influenzati dai film politici dell’epoca.
L’archivio Luce si è rivelato allora una fonte preziosa di testimonianze di grande valore antropologico?
Senza dubbio. Forse non sono state valorizzate appieno queste immagini che ci regalano il volto del popolo e non quello del potere. Un popolo che con ingenuità guarda in macchina e le cui istantanee hanno una valenza non solo antropologica ma politica, perché ci dicono che il popolo esisteva con la sua musica, la sua cultura e l’orgoglio.
Nel suo lavoro ci sono anche alcune immagini animate, di che si tratta?
La lunga calza verde un mediometraggio molto bello di Roberto Gavioli, con soggetto di Cesare Zavattini, un cartoon realizzato nel 1961 per i cent’anni dell’Unità d’Italia. Abbiamo utilizzato alcuni inserti cercando di rispettare l’opera, mantenendo delle sequenze.
Come in altri suoi precedenti film, di nuovo ha lavorato sul repertorio. Per lei ha un fascino nostalgico?
Piuttosto un gusto archeologico ma con una valenza antropologica, cioè come è cambiata l’Italia nel bene e nel male. Si è fatto del Novecento un racconto per compartimenti stagni che non condivido. Invece grazie al repertorio si può leggere una continuità, come nel caso della retorica della patria che ritrovi sia nelle immagini del regime fascista sia nel dopoguerra.
Il suo film contiene un ricco repertorio di canzoni popolari e di protesta.
Da anni dura il sodalizio con Ambrogio Sparagna che ricerca e seleziona queste musiche, un lavoro iniziato tempo fa di cui mi sono avvalso, contribuendovi, per Latina vittoria, Vecchia piccola America, Pomodori. Un lavoro di valorizzazione della cultura contadina, pensando alla ricchezza di quel mondo e non vedendolo, come accaduto per colpa di una certa vulgata di sinistra, come fatto solo di miseria, ingiustizie e tristezza. Interessandomi la questione contadina, ho preferito collocare gli operai in secondo piano, ma non vuol dire che gli operai non siano importanti.
E la dedica iniziale al regista “Riso amaro” e “Roma ore 11?
Giuseppe De Santis innanzitutto è stato uno dei miei maestri insieme a Carlo Lizzani e Vittorio De Seta che ho avuto la fortuna di frequentare a Fondi e insieme al quale ho insegnato alla vecchia Nuct, ora Act Multimedia. E’ un omaggio a un regista che è sempre stato sensibile alla questione contadina, al mondo degli umili. Nel suo cinema popolare non ha mai separato l’autorialità con la necessità di arrivare al pubblico più ampio attraverso un cinema popolare.
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