Leonardo Di Costanzo, Enrica Colusso, Daniele Incalcaterra, Alessandro Rossetti, Alberto Signetto, Paolo Pisanelli, Ilaria Freccia, Gianfranco Pannone. Ne avete mai sentito parlare? Eppure sono tra i pochi in Italia che mantengono alta all’estero la bandiera del documentario italiano.
Registi formatisi alla Scuola Nazionale di Cinema, oppure sotto l’ala protettiva di Ipotesi Cinema di Ermanno Olmi. O ancora autodidatti con nel sangue il desiderio di documentare, denunciare – raccontare, in una parola – tramite un genere che molti ritengono scomparso o territorio privilegiato di televisione e giornalisti, piuttosto che del cinema e dei registi.
Tra questi, Gianfranco Pannone è uno dei più prolifici, dei più premiati e dei più rigorosi. Mentre è nelle sale italiane il documentario di Emir Kusturica Super8 Stories, esce in home-video la trilogia dei suoi documentari sulla storia recente d’Italia raccontata dalla gente comune: Piccola America (1991), Lettere dall’America (1995) e L’America a Roma (1998). Quest’ultimo, un viaggio sentimentale tra i caratteristi del cinema western che si girava in Italia tra gli anni ’60 e ’70.
Oltre ad essere regista di documentari insegni alla scuola Zelig di Bolzano e alla NUCT di Roma, sei il vice-presidente uscente di Doc/it, l’Associazione dei Documentaristi Italiani…
Doc/it è nata più di due anni fa con lo scopo di agitare le acque stagnanti della produzione documentaristica italiana, soprattutto per promuovere e differenziare il cosiddetto documentario di creazione, in cui si sperimentano nuovi linguaggi e commistioni di generi, da quelli di inchiesta o scientifici ai più tradizionali e “televisivi”. Da allora siamo riusciti, per esempio, a far alleare per la prima volta produttori, distributori, autori e istituzioni culturali.
Dove trova i finanziamenti per realizzare un documentario un regista italiano?
In gran parte dalle coproduzioni e dai preacquisti televisivi, grazie anche all’avvento di Tele+ e Planète, che hanno cominciato ad interessarsi seriamente al documentario di creazione. E sempre più spesso con l’aiuto di emittenti europee che entrano in coproduzione: Arte (Germania-Francia), Z DF (Germania), RBTF (Belgio), Avro (Olanda).
Qual è il budget medio di un documentario?
Un documentario si può fare anche con poche decine di milioni, ma per realizzare un prodotto degno di uscire dai nostri confini siamo intorno ai 2-300 milioni, per circa un’ora televisiva. All’estero anche il doppio.
Il ruolo della Rai?
La Rai potrebbe essere l’ingranaggio centrale di questo meccanismo, ma prevale la politica del documentario di inchiesta, dal taglio perlopiù giornalistico. Il documentario di creazione, che sperimenta, e che spesso è vera e propria arte cinematografica, ha spazi praticamente inesistenti. Ogni tanto c’è qualcuno che compra o produce: Giovanni Tantillo quando era capo-struttura di Raitre (sotto la direzione di Guglielmi) comprò molti documentari. Passato a Raiuno come direttore di rete ha prodotto alcuni film-documentari, tra cui quello di Francesca Archibugi (Banda sonora) e il mio (L’America a Roma). Il primo ha avuto uno share del 5% in seconda serata; il mio, come altri, non è mai andato in onda e l’operazione si è arenata. La Rai è un riferimento importante ma anche il punto critico del problema.
Lo Stato cosa fa? I finanziamenti pubblici non vengono erogati?
La legge non funziona per un semplice fatto: per accedere al Fondo di Garanzia bisogna presentare una sceneggiatura completa e dettagliata. Il problema è che un documentario per sua natura non può avere una sceneggiatura prima di essere girato. Al più si può scrivere un trattamento. Non è possibile prevedere esattamente cosa verrà fuori. Paradossalmente se oggi Pasolini, Rossellini, De Seta e Olmi, volessero fare un documentario non riuscirebbero ad ottenere finanziamenti pubblici.
C’è speranza che le cose cambino?
Sembrerebbe di sì. Per fortuna, anche grazie al lavoro di Doc/it, ultimamente Rossana Rummo – capo della Direzione generale per la cinematografia presso il ministero per i Beni e le attività culturali – ha annunciato uno snellimento nelle procedure, permettendo anche la presentazione di trattamenti, non solo di sceneggiature. E’ anche previsto un fondo di avviamento progetti, affidato all’Istituto Luce, fino a 50 milioni. Ma secondo me deve cambiare la prospettiva con cui si guarda al documentario: non un prodotto diverso dal cinema di fiction che vediamo nelle sale, ma come un’opera cinematografica a tutti gli effetti.
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