Incontriamo Gianfranco Pannone in occasione della presentazione di “Immagini dal lavoro”, raccolta di interventi incentrati su alcune delle sedi deputate al lavoro: la fabbrica, la terra, la città, il mare, la miniera, la ferrovia, la frontiera. La presentazione del testo, pubblicato da Ediesse, per iniziativa dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico e dell’Ucca, unione circoli cinematografici Arci, rientra tra le iniziative intraprese dal mondo del cinema per celebrare il Primo Maggio.
L’archivio audiovisivo, per parte sua, ha organizzato una rassegna di film documentari fino al 3 maggio nel Museo d’arte contemporanea in via Reggio Emilia a Roma.
Uno dei film in rassegna è appunto Latina/Littoria di Gianfranco Pannone, che sta già preparando per Marco Mueller il suo prossimo documentario, Sud, un viaggio nella musica popolare delle piccole province del Meridione. “Una riscoperta della musica tradizionale come la taranta e la tamurriata, compiuta da un gruppo di giovani”, precisa Pannone. Il film avrà dodici mesi di gestazione e sarà girato in diversi momenti dell’anno. Ma il regista realizzerà anche, da gennaio 2003, Non ho tempo, film di fiction. “E’ la storia di Roberto, un giovane avvocato che si ritrova a fare i conti con una malattia improvvisa. Voglio raccontare il ceto medio, implosivo, incapace di vivere e confrontarsi con il prossimo”. Il film sarà prodotto da Lantìa.
Il cinema può rappresentare il lavoro in varie forme. Qual è la sua riflessione su questi temi?
Elio Petri segnò bene la strada da percorrere con La classe operaia va in Paradiso. Insieme a Ugo Pirro, il suo sceneggiatore, seppe raccontare l’alienazione del lavoro, ma attraverso vicissitudini private. E lo fece con sguardo ironico feroce. E poi c’era Vittorio De Seta che seppe realizzare documentari di narrazione senza la tradizionale voce fuori campo che esprimeva concetti eccessivamente ideologici. De Seta raccontava delle storie con sguardo antropologico. Oggi non basta più filmare i cortei e le bandiere dei lavoratori. Il lavoro va difeso, ma in un altro contesto. Interesse del cinema, documentaristico e non, è quello di andare a indagare sull’identità di quelle persone che vanno in piazza a manifestare. Bisogna raccontare le storie che vi sono dietro, e rappresentare forme più nascoste del lavoro. Bisogna avere la capacità di capire come vive un giovane che fa un lavoro interinale, scandagliare la realtà con uno sguardo più aperto, laico. Anche Cofferati si è reso conto che non basta più rappresentare il mondo del lavoro attraverso la figura del salariato.
In cosa invece il cinema ha fallito?
Una parte dei cineasti italiani hanno filmato il lavoro esclusivamente attraverso la loro lente che era quella della borghesia ‘illuminata’. Negli anni ’50 e ’60 poi la sinistra storica ha mitizzato la figura dell’operaio, mettendo in secondo piano qualsiasi altro genere di lavoro. Quanto alla mia generazione, non deve fare l’errore di chiudersi di fronte alla realtà.
Chi, nell’attuale generazione di cineasti, riesce meglio a raccontare la realtà del lavoro?
Il francese Laurent Cantet è molto bravo, soprattutto perché con Risorse umane e A tempo pieno ha eliminato la vecchia e ritrita linea di confine tra il cinema documentario e di finzione. In Italia ci sono Paolo Virzì e Mario Martone. Quando uscì La bella vita ricordo ancora la curiosità di tutti noi colleghi verso i due operai, rinnovati protagonisti di una commedia. E poi c’è Alessandro Piva: La Capagira è uno spaccato essenziale dell’Italia contemporanea attraverso esistenze marginali. Tra i documentaristi Alessando Rossetto e Giovanni Piperno. Quest’ultimo sta per raccontare la storia di un ometto che piazza la dinamite per distruggere dei palazzi nei dintorni di Napoli. E’ fondamentale recuperare le storie della provincia: rimanendo nella Roma ministeriale o nel terziario milanese ci si chiude solo in se stessi.
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