Gianfranco Giagni


Un passato da critico musicale e la chance di lavorare come aiuto regista sul set di L’eredità Ferramonti, il film di Mauro Bolognini che nel 1976 fece guadagnare un premio a Dominique Sanda e una nomination al regista. Ma Gianfranco Giagni, allora appena ventiquattrenne, doveva sperimentare nuove strade: alla fine degli anni Ottanta crea Mr. Fantasy, un programma musicale per la Rai, e inizia a girare videoclip (suo tra l’altro Mare d’inverno con Loredana Bertè). Nel 1988 torna dietro la macchina da presa: al cinema gira Il nido del ragno; per la tv Valentina ispirato al fumetto di Crepax; nel ’93 è la volta di Rosabella: la storia italiana di Orson Welles, un documentario sui rapporti del grande regista con l’Italia.
Ora Giagni dirige una scommessa ambiziosa, Nella terra di nessuno, un vero e proprio thriller, con tanto di colpo di scena finale, ambientato in un carcere speciale durante gli anni di piombo. I carcerati naturalmente sono terroristi, e poi c’è un avvocato, Ben Gazzara in duetto con Maya Sansa, la sorella di uno dei detenuti. Tratto da Tre giorni nella vita dell’avv. Scalzi, il giallo di Nino Filastò che sta per essere ripubblicato da Mondadori.

Che ricordo hai dell’esperienza con Bolognini?
Di un modo di fare cinema oggi difficile da trovare. L’eredità Ferramonti era ambientato nel 1897, dunque in costume. Giravamo a Via dell’Anima, nel pieno centro di Roma, tra i rumori del traffico e un fiume di gente. Ebbene, ricordo Bolognini girare la scene con una precisione infernale. Inquadrava al millimetro le vesti ottocentesche della Sanda per coprire il passaggio della gente. Gabriella Pescucci, la costumista, Luigi Scaccianoce, lo scenografo, e il regista passavano ore negli studi della De Paolis a parlare delle tonalità di accordo tra i vestiti della Sanda e lo sfondo.

Parliamo di “Nella terra di nessuno”, il tuo nuovo film. Come è nato il desiderio di trarre una sceneggiatura dal romanzo di Filastò?
L’idea era molto visiva: fare un thriller in carcere. Inoltre mi interessava la prospettiva del libro: riuscire a raccontare vicende storico politiche da un punto di vista non politico. Pensa ai Tre giorni del Condor. Il miglior film che tratta di questo periodo è Colpire al cuore di Gianni Amelio. Comunque trovo che c’è un modo ancora troppo psicologico di raccontare gli anni di piombo.

Quale penitenziario hai scelto per le riprese?

Ero indeciso tra l’Asinara e Pianosa. Alla fine abbiamo optato per Pianosa. Lì c’è un carcere ora in disuso, ma che fino al ’98 è stato uno dei più famosi istituti di pena di massima sicurezza. Le celle sono state occupate da personaggi come Totò Riina, Michele Greco e Nitto Santapaola. Dall’inizio degli anni Ottanta lì dentro sono stati rinchiusi i capi storici delle BR e del terrorismo nero, da Renato Curcio ad Alberto Franceschini. Girando nell’infermeria ho trovato lo schedario degli ultimi ospiti e la lista dei mafiosi era impressionante. Per il film ho usato quattro detenuti in semilibertà come comparse. Hanno fatto le guardie in una scena del film. Un ex-picciotto quando ha indossato la divisa mi ha detto: “Dottore, che vergogna! Preferivo essere vestito da ballerina”

Questa sceneggiatura è in cantiere da diversi anni. Gian Maria Volonté l’aveva letta e voleva interpretare il ruolo dell’avvocato, quello che ora è affidato a Ben Gazzara…
Sì, si era appassionato alla sceneggiatura come al libro. Cominciammo subito a lavorare sul suo personaggio. Volonté aveva una coscienza e una conoscenza molto forte dei personaggi che interpretava, un rapporto di studio. Gazzara invece ha un modo tutto diverso, ma non meno valido di lavorare. Si può dire che c’è sempre del suo nei personaggi che assume. In questo film il personaggio, l’avvocato, è costretto a confrontarsi con un mondo lontano da lui. Dunque agisce con un certo distacco.

Quanto hai dovuto studiare e documentarti sulla vita carceraria?
Ho letto molto sul terrorismo. Infine ho chiesto a Franceschini di leggere la sceneggiatura. Due cose terrorizzavano i detenuti: le perquisizioni e la “domandina”. Quest’ultima significa che quando hai bisogno di qualcosa chiedi al maresciallo che chiede al suo superiore che chiede al direttore…. E nel frattempo sono passati due mesi. Succede tuttora, ma in regime di detenzione speciale l’attesa era straziante. Può passare la stagione e tu ancora lì a attendere un paio di calzini di lana.
In una scena i detenuti preparano una bomba con la macchinetta da caffè. Franceschini, che è stato anche all’Asinara, mi ha raccontato che la rivolta di quel carcere avvenne proprio con le macchinette.

C’è qualcosa di vero nella storia di Filastò?
Di riferimenti veri ce ne sono parecchi. I giornalisti di cronaca giudiziaria potrebbero scoprirne qualcuno, credo.

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21 Maggio 2001

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