Gian Alfonso Pacinotti “Noi terrestri? Siamo brutti e cattivi”


VENEZIA – “Se ho letto i giornali? Volete dirmi che qui a Venezia menano? Ma il mio film è molto diverso da quello di Cristina Comencini, e io non ho paura”. Niente di più vero, il terzo italiano in concorso a Venezia 68, L’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, è diverso da qualsiasi altra cosa. L’oggetto alieno di questa edizione, un film davvero originale e straniante. Lo ha realizzato un fumettista molto noto anche all’estero che esordisce come regista grazie a un’intuizione del produttore Domenico Procacci (con Rai Cinema e Regione Toscana).

 

Pisano, classe ’63, Pacinotti è autore di fumetti come “Esterno notte” e “Appunti per una storia di guerra” o “La mia vita disegnata male”, oltre che illustratore per il quotidiano La Repubblica e per il settimanale Internazionale. Come protagonista, ha chiamato un altro pisano, suo amico da tanti anni, Gabriele Spinelli. Che racconta: “Non sono un attore, ma avevo collaborato con Gipi in passato per realizzare alcuni cortometraggi”. Tra cui l’ironico Vaffanculo del terzo tipo, che racconta l’arrivo dei marziani nella campagna Toscana. La gente, anziché averne paura, li accoglie a sassate al grido di “dovevate arrivare negli anni ’60”.

 

Davvero molto apprezzato qui al Festival, dove è stato accolto con 15 minuti di applausi, L’ultimo terrestre, oggi in sala, è una storia di incomunicabilità, cinismo e solitudine all’ombra di uno sbarco di alieni sul pianeta Terra. Ma alieno, anzi alienato, è soprattutto il protagonista Luca Bertacci, che lavora come cameriere in un Bingo e abita in un condominio di appartamenti tutti uguali, dove nulla funziona ma non si può neppure protestare. Ha un’unica amica, un tenero transessuale emarginato da tutti (Luca Marinelli), mentre suo padre (Roberto Herlitzka) vive isolato in campagna e non si è mai ripreso dalla fine del suo matrimonio: in seguito a quell’abbandono ha instillato nel figlio un sentimento di odio verso le donne, così Luca non conosce l’amore e lo cerca a pagamento, ma è segretamente innamorato della vicina, una ragazza normale quanto irraggiungibile (Anna Bellato). Finché un giorno, mentre il Tg annuncia l’imminente sbarco dei marziani, lui trova un gatto morto per la strada e lo getta nel cassonetto…

Gipi, perché ha scelto di raccontare una storia non sua, lei che ne ha tante nel cassetto?

Per evitare l’autobiografia, che contraddistingue da sempre il mio lavoro. Mi sono ispirato a una graphic novel di Giacomo Monti, intitolata “Nessuno mi farà del male. Finora mi ero messo troppo a nudo, stavolta ho preferito prendere le distanze dal racconto di me stesso.

Lei mostra un’umanità ottusa, razzista, vigliacca e arida. Insomma, senza speranza… In un’Italia non di oggi, ma immaginata tra tre anni appena.

E’ vero, sono tutti molto brutti, delle vere macchiette. Francois Truffaut raccomandava di avere rispetto anche per il personaggio del cattivo e di non descriverlo come semplicemente tale. Ma se guardo alla classe dirigente italiana, vedo tante macchiette e allora penso che Truffaut non conosceva l’Italia del 2011.

L’indifferenza dilaga: l’annuncio dato dai Tg dell’imminente arrivo degli extraterrestri sul nostro pianeta non fa breccia nelle coscienze della gente.

I razzisti si inquietano, i furbi immaginano come sfruttare l’occasione, l’indifferenza statisticamente domina. Capita anche a noi. Quando sento la notizia che ottanta immigrati sono morti di fame e di sete e il giorno dopo l’ho già scordato, mi rendo conto di essere diventato malvagio e apatico. E se il mio infantile desiderio di cambiare, può essere affidato solo all’arrivo degli alieni, vuol dire che la situazione è davvero disperata.

 

Che rapporto ha con il cinema di fantascienza?

Il mio non è un film di fantascienza ma una storia d’amore. Sono cresciuto vedendo tanti film ma non mi definisco un cinefilo. Se proprio devo citare un film, mi viene in mente Eraserhead di Lynch che ho visto a 15 anni, magari un po’ di quello ci è caduto dentro.

 

Ma i suoi alieni sono molto classici.

Sono molto simili ai “grigi” di Incontri ravvicinati, ma si distinguono soprattutto per la capacità di sapere cosa è bene e cosa è male. Il loro arrivo è molto simile a un giudizio universale.

 

Che effetto le fa il festival?

E’ una lusinga continua.

 

Ha in mente uno spettatore ideale?

Soprattutto non vorrei che lo andassero a vedere solo quelli come me, quarantenni e un po’ intellettuali. Mi piacerebbe se arrivasse anche ad altri cervelli, ai ragazzini, per esempio.

 

La prima parte del film è molto buffa, poi la storia prende una piega seria e drammatica. La preoccupava questo cambio di registro?

Un po’ sì, ma ci voleva nella storia che avevo da raccontare e poi per me il comico e il drammatico si mescolano sempre, come nella vita di tutti noi.

 

E’ vero che non siamo dalle parti di “Independence Day”, ma Luca è un vero antieroe.

E’ inetto all’azione, passivo. I miei protagonisti sono occhi che vedono le cose. Anzi, il fatto che riconosca che c’è stato un omicidio e arrivi a licenziarsi dal Bingo per reazione è una scelta enorme per lui.

 

E’ vero che ha girato vicino a casa sua?

Sì, il mobilificio che si vede nel film è quello dove ero andato a cercare il divano per casa, anche se poi non l’ho trovato, il Bingo sta a 300 metri da me. Posso raccontare solo luoghi e cose che conosco bene, ma nello stesso tempo non volevo che ci fossero riferimenti geografici precisi, questa storia potrebbe accadere ovunque. 

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08 Settembre 2011

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