VENEZIA – Gelosia, paranoia, identificazione progressiva. E’ la sindrome della prima moglie, che stavolta non si chiama Rebecca come nel capolavoro di Hitchcock del 1940 ma Lucia, ed è una danzatrice di tango morta prematuramente in circostanze misteriose. Il vedovo, Max Oliver, è uno scrittore americano sulla cinquantina che vive in una masseria in Puglia, e lì, da New York, porta la giovane Julie (Jess Weixler) che apparentemente lo asseconda in tutto ma segretamente comincia a indagare sul passato dell’uomo, scendendo nella cantina dove lui, come un moderno Barbablù, conserva le tracce di quella precedente unione, gli oggetti che erano appartenuti all’altra e anche dei filmati video.
E’ un noir assolato e tortuosamente femminile, A Woman, terzo film di Giada Colagrande presentato in Controcampo Italiano. Ancora una collaborazione tra la regista abruzzese, scoperta a Venezia con lo scandaloso Aprimi il cuore, e suo marito Willem Dafoe, il grande attore diretto di recente anche da Lars Von Trier in Antichrist. Produzione ultraindipendente, ancora in cerca di distribuzione, girata in gran parte nella masseria di famiglia della produttrice Rita Capasa a Otranto, un luogo magico e metafisico, perfetto per le triangolazioni emotive di questa storia che tende all’astrattismo. Nel cast anche Stefania Rocca, nel ruolo dell’amica Natalie, e Michele Venitucci, in quello di un misterioso ragazzo pugliese che spia la protagonista.
Partiamo dalle atmosfere noir e dai riferimenti a Hitchcock e Lynch.
Il noir americano degli anni ’40 è il mio genere preferito per la sua linearità non razionale. Rispetto al giallo non c’è mai una ragione chiara dei fatti e dei motivi per cui il crimine si compie. Per quanto riguarda i riferimenti, oltre a Notorius, Rebecca e Mullholland Drive, ho pensato molto anche a Bill Viola.
Lei dà a molti la sensazione di fare sempre lo stesso film…
E’ il mio sogno, in qualche modo. Il mio cinema parla dell’identità e della dualità femminile. In questo caso mi sono soffermata sulla perdita d’identità provocata dall’amore.
Per un regista è una grande opportunità poter avere un’attrice incinta sul set, Francois Ozon ha costruito un suo film recente, “Il rifugio”, proprio sulla gravidanza di Isabelle Carré.
Quando Stefania Rocca ha saputo di essere incinta, all’inizio voleva rinunciare al film, perché a giugno, durante le riprese, sarebbe stata al quinto mese di gravidanza… Ma io l’ho incoraggiata a farlo lo stesso, pensando che potesse mascherare la pancia. Poi ho capito che potevamo usare la sua condizione come chiave per la trasformazione del personaggio di Natalie, che diventa donna e sceglie la luce, mentre l’altra diventa sempre più oscura.
Il film è totalmente autoprodotto dalla vostra Bidou Film, non avete tentato la strada dei finanziamenti?
Sì, ma è stato impossibile ottenere il sostegno delle istituzioni, a parte l’Apulia Film Commission. Però siamo riusciti a lavorare con pochi soldi, perché ognuno ha una parte dei diritti del film, e questo ci ha dato grande libertà.
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