Da sempre Giacomo Campiotti (Corsa di primavera 1989, Come due coccodrilli 1994 e Il tempo dell’amore 1999) è attento ai moti dell’anima e del cuore, soprattutto se si collocano anagraficamente nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza. Dopo le recenti prove televisive – la miniserie Il dottor Zivago e la fiction La guerra sulle montagne – Campiotti torna al cinema con una storia scritta tre anni fa con Alexander Adabachian, sceneggiatore russo dei suoi due precedenti film nonché collaboratore abituale di Nikita Michalkov.
Mai + come prima, da venerdì in sala distribuito da Medusa, è la storia di alcuni ragazzi che dopo l’esame di maturità si trovano a fare i conti con il proprio destino futuro. Devono scegliere se ascoltare se stessi o accondiscendere ai genitori o alla società con i suoi modelli. Una breve vacanza tutti insieme a contatto con la natura maestosa e forte delle Dolomiti, sarà lo spartiacque tra l’adolescenza e la maturità, con la scoperta dell’energia che ciascuno possiede e che spesso dimentica di avere. Tra i sei giovani, che bene rappresentano le diverse tipologie sociali, c’è anche Max, un ragazzo diversamente abile anche nella realtà, che crescerà nonostante il suo handicap. Accanto ai giovani interpreti troviamo Francesco Salvi, Lunetta Savino e Pino Quartullo.
Scritto tre anni fa, Mai + come prima (inizialmente il titolo era I guerrieri della luce), ha avuto una tormentata nascita: dopo il rifiuto di vari produttori di finanziarlo perché non c’era la garanzia di attori noti per i ruoli principali, ha ottenuto il fondo di garanzia ma è rimasto fermo un anno per il congelamento dei soldi del ministero, finché è arrivata in soccorso Medusa.
Quanto di autobiografico c’è nel suo lavoro?
E’ da tanto che volevo raccontare quell’età, ho atteso trent’anni per evitare i rischi dell’autobiografismo. Gli unici ricordi personali riguardano la perdita di un amico proprio durante un’escursione in montagna, ma in un contesto del tutto diverso. E poi un compagno di classe del liceo diversamente abile, come Max, che portavamo in spalla a turno durante i nostri trekking.
Il suo film non mi pare generazionale, ma piuttosto un racconto di formazione.
Al fondo ci sono le emozioni che ho vissuto durante l’adolescenza, questa età bellissima e difficile, quando ci credevamo invincibili e il futuro era davanti a noi. Ho unito un evento tragico con il ricordo di quel che noi adolescenti sentivamo: dai rapporti frustranti con la famiglia e la scuola a quel sentirsi poco capiti. Tanti giovani si trovano soli di fronte alle scelte della vita, mentre gli stessi genitori sono degli eterni adolescenti, più immaturi dei figli e raramente punti di riferimento.
Ai ragazzi d’oggi che cosa intende suggerire con la sua storia?
Che quando il gioco si fa duro non ci si può tirare indietro. In quella stagione di vita l’importante è non tradire il proprio sogno e non accettare i modelli che la famiglia e la società ti impongono, ma andare diritti per la propria strada, facendo tesoro delle proprie esperienze. Ho raccontato questi giovani, rifuggendo gli stereotipi: nelle prime inquadrature sono rappresentati con il loro codici e comportamenti esteriori, poi piano piano si rivela la vera natura e alla fine sembra proprio di conoscerli.
Come ha scelto gli attori?
Tranne Federico e Nicola, nel film Fava e Max, gli altri ragazzi hanno interpretato personaggi vicini alla loro personalità. Del resto in fase di casting ho preferito chiacchierare con i ragazzi che si presentavano piuttosto che ricorrere ai tradizionali provini. Poi sul set ho cercato di mantenere la loro spontaneità e veridicità.
Per questa ragione ha preferito girare in economia e con una cinepresa 16 mm?
L’idea di base è stata quella di una troupe leggera, innanzitutto perché i sei giovani interpreti sono dilettanti o alle loro prime esperienze. E poi volevo essere libero di cambiare le scene. C’era poi il problema di una location non facilmente agibile come l’alta montagna, in particolare le affascinanti Dolomiti della Val Badia.
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