Dopo il film di Barry Jenkins (If Beale Street Could Talk) arriva alla Festa un’altra storia all’insegna dello slogan “black lives matter”. Si tratta di The Hate u Give di George Tillman jr. – noto soprattutto per Men of Honor – dal romanzo omonimo di Angie Thomas, diventato negli Usa un caso editoriale (in Italia lo pubblica Giunti). Film di denuncia delle ingiustizie e dei soprusi che la comunità afroamericana subisce quotidianamente, è la storia di Starr Carter (Amandla Stenberg), una sedicenne cresciuta nel quartiere nero di Garden Heights, in una famiglia perbene nata dall’amore tra un ex membro di una gang tornato sulla retta via e sua moglie, infermiera che vuole assicurare ai figli un’istruzione e un futuro migliore. Così Starr e suo fratello Seven studiano in un college di bianchi e la ragazzina vive una sorta di sdoppiamento: da una parte ci sono i compagni di scuola, rampolli della classe media che magari amano il rap e la cultura afro ma solo per sentito dire, dall’altra gli amici d’infanzia cresciuti in un contesto dove lo spaccio è la sola alternativa praticabile. Tra questi Khalil, primo amore di Starr, che una notte viene ucciso da un poliziotto nervoso che scambia una spazzola per capelli per una pistola. Unica testimone dell’omicidio razziale è proprio Starr che dovrà decidere da che parte stare anche a costo di mettere a repentaglio la sua serenità e la sua stessa vita.
In un certo senso il film è la versione spettacolarizzata e condita di retorica delle tensioni raccontate dal documentario di Roberto Minervini What You Gonna Do When the World’s On Fire? con scene di dimostrazioni di piazza e un finale che inneggia al pacifismo ma anche alla rivendicazione netta dei propri diritti.
Quando ha deciso di fare un film dal romanzo di Angie Thomas?
A gennaio 2016, all’epoca lavoravo per un programma tv e mi è capitato di leggere le bozze del libro ancora inedito: mi sono reso subito conto che mi toccava molto da vicino, così ho chiesto di parlare con Angie Thomas. Mi piace questa idea dell’identità afroamericana in bilico tra due codici. Spesso noi neri quando siamo nel mondo dei bianchi facciamo dei compromessi per mettere le altre persone a proprio agio. Ma nel corso del tempo ho capito che è meglio essere se stessi ed è quello che anche Starr capisce. Così il tema della brutalità della polizia per me passa quasi in secondo piano rispetto a questo dell’identità.
La questione razziale continua ad essere prevalente negli Stati Uniti.
Sì, è legata alla stessa origine del capitalismo, cioè alla schiavitù. C’erano delle guardie, gli slave patrol, che catturavano gli schiavi fuggiti e li punivano, considerandoli degli oggetti, delle proprietà, ed è una cosa ereditata in un certo senso dalla polizia. Tutto è un circolo vizioso: il business della droga, la carenza di posti di lavoro, il sistema penitenziario. Per questo ho voluto mostrare anche il ruolo negativo di King, il boss della malavita nel quartiere.
L’educazione è uno strumento importante. Nel film vediamo il padre di Starr leggere e far imparare a memoria ai tre figli il decalogo delle Black Panther con i loro diritti.
I bambini bianchi e privilegiati non hanno bisogno di imparare queste cose, con loro si parla di educazione sessuale. Ma nella comunità afroamericana bisogna imparare a fare i conti con la brutalità della polizia fin da piccoli. È importante imparare come comportarsi per sopravvivere: mettere le mani bene in vista sul cruscotto, non contestare gli agenti, non fare movimenti bruschi.
La dignità e l’orgoglio per la propria appartenenza sono un’altra arma importante.
All’inizio degli anni ’70 mio padre, che faceva l’operaio, è stato licenziato. Contemporaneamente, in quei giorni, un ragazzo del quartiere è stato ucciso con un colpo d’arma da fuoco. Questi due fatti sono per me collegati. Ricordo che fu un Natale molto duro, non c’erano regali, però la mia famiglia è rimasta unita e ha cercato delle occasioni di gioia, c’erano alti e bassi, ma si rideva in mezzo al dolore. Nel film, anche se le cose sono molto difficili, la famiglia Carter rimane unita, riescono a pregare insieme. L’umanità è ciò che abbiamo e che non ci può essere tolto.
Pensa che questo film debba rivolgersi ai giovanissimi?
Vorrei che i ragazzi lo vedessero. Anche i social media hanno un impatto enorme. Quando Starr mette le foto dei neri uccisi sui social, l’amica bianca si dissocia. Diciamo ai ragazzi di usare la propria voce, ma poi li critichiamo se lo fanno. Invece bisogna imparare a dire quello che si sente. Questo non è il classico film young adult, perché i ragazzi annusano subito se una cosa è un po’ falsa, però si rivolge anche a loro.
Con la presidenza Trump le cose sono peggiorate negli Usa dal punto di vista degli afroamericani?
Tra poco, a novembre, ci sono elezioni di mid term e spero che producano un cambiamento. Gli Usa sono più che mai divisi in termini di razza. Soltanto due settimane fa, a Chicago, degli agenti sono stati condannati. E’ un primo passo.
Ha dato grande importanza alla famiglia nel suo film.
Non vediamo tanti uomini afroamericani normali al cinema. Spesso ci sono mamme single e padri in carcere. Volevo rompere questo stereotipo. Maverick, il padre di Starr, è un nero con i tatuaggi ma è anche un bravo padre di famiglia che non vuole che i suoi figli facciano i suoi stessi errori. Ha molta cura di sua moglie e dei suoi figli. Così ho cercato di cambiare l’immagine del nero in America, di uscire dagli stereotipi.
Ha voluto mantenere lo stesso titolo del libro.
Mi piace quel titolo, The Hate u Give, che cita un’espressione coniata dal rapper e attivista Tupac Shakur – the Hate you Give Fucks Everyone – l’odio che comunichi ai bambini quando non c’è lavoro, quando la polizia ti tratta in modo brutale, viene assorbito dai più piccoli e si riproduce. Se invece la società comunica amore, questo tornerà indietro con gli interessi. Trattiamoci meglio gli uni con altri. Perché abbiamo tanti soldi per fare la guerra e niente per nutrire i poveri? Io stesso sono andato in una scuola bianca, privata, dopo aver frequentato la public school e ho scoperto che era tutto diverso. C’era più formazione, c’erano soldi, c’era spazio. Alla festa di fine anno al college c’erano solo 4/5 afroamericani e io non volevo ballare perché non volevo subire lo stereotipo del nero che ha la musica nel sangue, ma la mia futura moglie mi ha detto: sii te stesso. Aveva ragione, ero grande e ancora non riuscivo a essere semplicemente me stesso.
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