Il primo Willy Wonka, il nipote di Frankenstein o il fratello più furbo di Sherlock Holmes: Gene Wilder è stato interprete implacabile di alcuni dei più imprevedibili personaggi del cinema comico nordamericano. Scomparso nel 2016, avrebbe compiuto oggi 90 anni. Nel 1972, dopo aver agitato cappello e bastone al fianco degli Umpa Lumpa nel primo infruttuoso adattamento del romanzo di Roald Dahl, Woody Allen lo scelse per aiutarlo a rispondere a tutto quello che si è sempre voluto sapere sul sesso (ma non si è osato chiedere). Nel film è il Dottor Doug Ross, innamorato della pecora di un paziente armeno. Personaggi imprevedibili, appunto.
“Sono un attore, non un pagliaccio”, raccontò. Una tecnica comica che coincideva con la realtà, secondo i dettami dei più grandi: “City Lights mi impressionò come attore”, ebbe modo di riflettere, “è stato divertente, poi triste, poi entrambi allo stesso tempo”. Lo spettro emotivo – reale e completo – come partitura della comicità, una regola che non provò mai a sconfessare. In un’intervista del 2005, Gene Wilder rivelò infatti la propria epifania comica. Aveva 8 anni e sua madre stava avendo un attacco di cuore: “È stata la prima volta che ho provato consapevolmente a far ridere qualcuno“, ha raccontato Wilder nella trasmissione Frash Air. “E quando ho avuto successo, dopo che se l’era fatta addosso ridendo, disse: ‘Oh, Jerry, ora guarda cosa mi hai fatto fare.'”. Triste e divertente, la commedia è sempre una moltitudine di strategie. “Quando tua madre ti dà la fiducia che puoi fare qualsiasi cosa, porterai quella fiducia con te. Lei mi ha fatto credere che potessi far ridere qualcuno”.
Nato l’11 giugno del 1933 come Jerome Silberman, da due ebrei russi emigrati negli Stati Uniti, prese un pezzo dall’amato drammaturgo Thornton Wilder e un altro dal protagonista di Angelo, guarda il passato, divenendo Gene Wilder. Dopo il debutto sul grande schermo nel 1963, conobbe Mel Brooks dando inizio a una carriera da luna park, tra parodie ai generi di Hollywood – Mezzogiorno e mezzo di fuoco rimestò nel Western per parlare al pubblico anni ‘70 – e grandi sodalizi, indimenticabile e convulsa l’accoppiata con Richard Pryor.
Sapeva cantare, ballare, improvvisare. Era un artista, un artista di Hollywood, animale da Musical e palcoscenico, capace di sceneggiare e dirigere persino un titolo ispirato a Lo sceicco bianco di Federico Fellini, Il più grande amatore del mondo. La fortuna in carriera ebbe inizio con Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971) di Mel Stuart, ma è con il Frankenstein Junior (1974) di Brooks che Wilder ha preso posto a sedere nella storia del cinema, a cui stretto rimase nel 2002, quando annunciò il ritiro a causa dell’Alzheimer dopo l’ultima interpretazione da Emmy Award in Will&Grace, e a cui è ancora saldamente seduto.
In una scena nei panni di Willy Wonka, Gene Wilder zoppica, si ferma e cade: quando sembra impossibile evitare lo schianto, rotola su se stesso e si rialza baldanzoso in uno slancio fisico che è riassunto di un’arte comica costruita sull’inatteso e l’impossibile, piegati a favore di camera come in uno scherzo da ridere in cui, però, è in gioco la vita.
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