CANNES – Gatsby le magnifique – come lo chiamano i francesi – va a Disneyland. È questa la prima sensazione che ti trasmette il film di Baz Luhrmann scelto per inaugurare il 66° Festival di Cannes. Un oggetto eccessivo, chiassoso e costoso che condivide soprattutto l’involucro col mitico romanzo di Francis Scott Fitzgerald, già portato sullo schermo tre volte – la più celebre è quella del ’74 con Robert Redford e Mia Farrow – e ancora in attesa di un regista all’altezza della sua geniale, tragica e decadente grandezza. Ma contemporaneamente a questa sensazione di spreco (soprattutto di un attore come Leonardo DiCaprio, probabilmente il Gatsby perfetto se a dirigerlo ci fosse stato un grande autore) affiora la netta consapevolezza che questa versione riesce a parlare ai giovanissimi: alla generazione 2.0 cresciuta nei mall e appassionata alle tecnologie digitali. Lo fa con l’uso lussureggiante, anche se in larga misura narrativamente del tutto inutile, del 3D (ma con momenti di grande fascino visivo, come nella sequenza in cui le finestre di New York si animano per raccontarci le mille storie che accadono dietro quei vetri), con la profusione di immagini e suoni, le feste dei ruggenti anni ’20 che si trasformano in un ininterrotto rave party, i fiumi di alcol che portano in rehab il narratore Nick (Tobey Maguire), il delirante mix musicale che passa con disinvoltura da Gershwin a Jay Z, dal jazz all’hip hop, musica nera e street music. Con l’infantile fascino del personaggio femminile, Daisy, a cui Carey Mulligan presta la sua grazia che sembra sempre sull’orlo della catastrofe e del pianto come per una qualunque adolescente.
Anche i critici di Cannes, come quelli americani, hanno decretato un’accoglienza gelata alle due ore e venti di un film che il Festival, di solito assai rigido su questo aspetto, ha scelto come apertura nonostante negli Usa sia già in sala dal 10 maggio (ha incassato 51 milioni di dollari, ne è costato 130). Per il New Yorker “la volgarità del Grande Gatsby è studiata per conquistare un pubblico giovane e suggerisce che, più che un cineasta, Luhrmann è un regista di videoclip con sconfinate risorse e una spettacolare assenza di gusto”. Variety titola la sua recensione “The Good, the Baz & the Ugly”, per il Guardian il regista australiano ha perso per strada tutta la profondità del romanzo. Ma tutti lodano il cast e soprattutto DiCaprio ed è arrivato anche l’imprimatur dell’anziana nipote di Scott Fitzgerald che si è presentata a Luhrmann alla fine della premiere americana e gli ha detto: “Sono venuta dal Vermont, ho attraversato mezza America per vedere cosa aveva fatto del romanzo di mio nonno. Penso che lui sarebbe fiero del film. E sa una cosa? Mi sono piaciute molto anche le musiche”.
Del resto, l’autore di Australia e Moulin Rouge è quanto mai fedele a se stesso. Un cineasta che resta all’esterno delle cose, che ama rileggere e reinventare senza paura dell’anacronistico e senza lasciarsi intimorire dai mostri sacri della letteratura mondiale (vedi Shakespeare per Romeo + Juliet), abilissimo tuttavia nel coreografare, portato a magnificare un cinema larger than life dove la vita vera con le sue ombre sottili scompare sul fondo. “Ero già stato stroncato con Romeo + Juliet, poi con Moulin Rouge. Sapevo che ci sarebbero state reazioni miste – è il commento pragmatico di Luhrmann – del resto anche Fitzgerald quando uscì il libro, nel 1925, fu definito un clown. Quello che mi interessa è che il pubblico vada a vedere e ami questo film. E nel primo fine settimana, malgrado l’uscita con blockbuster d’azione, c’è stata una ottima risposta”. Lui si consola guardando al box office ma anche al revival della moda anni ’20 decretato proprio dal film. I 600 costumi déco disegnati dal premio Oscar Catherine Martin, moglie del regista, sono nati in buona parte con la collaborazione di Miuccia Prada, che ha firmato circa 40 abiti femminili, e di Brooks Brothers (brand americano ora di proprietà dell’italiano Claudio Del Vecchio alias Luxottica) che ha realizzato 550 costumi maschili, rispolverando il suo archivio d’epoca. Per l’uomo camicie botton down e giacche avvitate con tessuti ricercatissimi, per la donna abiti-gioiello in seta scintillante, ricamati con cristalli e paillettes, mise in velluto e pelliccia ornate da frange danzanti, capelli tagliati alla maschietta tenuti da fasce e cerchietti.
La critica storce il naso ma non su DiCaprio che torna a lavorare con Luhrmann a quasi vent’anni da Romeo + Juliet (e annunciano che forse faranno in futuro un remake di Casablanca). Un critico americano ha definitio il suo Gatsby “più potente del placido Robert Redford nell’inerte adattamento del 1974”. Per l’attore, che forse spera nel suo primo Oscar (non l’ha mai vinto, neanche per The Aviator) grazie a questo ruolo ultraromantico, essere sulla Croisette è ogni volta come entrare nella Dolce vita di Fellini, un profluvio di flash e lusinghe. Ma lui prende le cose tremendamente sul serio: “Negli Stati Uniti Il grande Gatsby è una lettura imprescindibile. Da ragazzino ne sono stato affascinato ma non ne ho colto il potenziale, la profondità. Prima del provino con Baz l’ho riletto con sguardo adulto e il libro si è riempito improvvisamente di significati. Ancora oggi se ne discute tanto ed è perché Fitzgerald ha lasciato larghi spazi che sono riempiti da chi legge. Ognuno ha la sua verità, la sua interpretazione. Per me più che la storia d’amore è una tragedia del nuovo americano, che nel nuovo mondo, quello in cui tutto è possibile, cerca di diventare Rockfeller ma perde il senso della sua ricerca”.
In effetti nella versione di Luhrmann è proprio l’aspetto esasperatamente consumistico e disperato a balzare ferocemente agli occhi. Si sa, il romanzo parla soprattutto di un’America ancora ignara della crisi che l’attende di lì a poco, un’America cinica e immorale, dove i guadagni sono facili (grazie alla finanza e al proibizionismo) e dove si dissipano immense fortune ballando sul precipizio, mentre i poveri vivono nella desolazione e nell’abbandono più totale. Per il parvenu Jay Gatsby è un mondo da sedurre, grazie a una generosità che non gli sarà riconosciuta, per riconquistare l’amata Daisy, sposata a un uomo dalla ricchezza quasi imbarazzante che però non l’ama e la possiede come si possiede una cosa. Per lo sceneggiatore Craig Pearce il legame con l’epoca attuale è più che lampante. In tempi di crisi come i nostri lo spettatore vedrà di certo nel mèlo sentimentale lo spettro di una decadenza imminente celato dietro tanto sfarzo esibito, tanto divertimento forzato. Curiosamente un punto in comune con il film più diverso dal Grande Gatsby che si possa immaginare, La grande bellezza di Sorrentino.
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