Gaglianone: non è un volantino il mio documentario sui No TAV

In 'Qui', presentato al TFF DOC nella sezione Democrazia e in sala il 27 novembre, dieci attivisti valsusini raccontano la loro protesta e opposizione al progetto dell'Alta Velocità


TORINO. Era il maggio 2013 quando Matteo Renzi, non ancora premier, proprio nel capoluogo piemontese, presentando il suo libro ‘Oltre la rottamazione’, rottamava, appunto, l’Alta velocità in Val di Susa ritenendola “non un’opera dannosa, ma inutile. Sono soldi impiegati male. Rischia di essere un investimento fuori scala e fuori tempo”. A ricordarlo è il regista Daniele Gaglianone che porta al TFF DOC, nella sezione Democrazia, il documentario Qui, prodotto da Arcopinto e Procacci, sulla protesta e l’opposizione alla TAV, che dura da 25 anni, e coinvolge anziani, giovani, sindaci, cattolici.
In Qui, in sala il 27 novembre, parlano dieci attivisti del movimento e raccontano come la politica nazionale ha affrontato sempre più la questione in termini di ordine pubblico, abbandonando gli abitanti della Val Susa al loro destino, alle prese con i poliziotti in tenuta antisommossa. Persone con vite ed esperienze diverse si sono ritrovate a condividere la stessa lotta contro un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche, interrogandosi sul futuro: un sindaco, un attivista di Radio Black Out, un’infermiera, un consigliere comunale e coltivatore di castagne, una signora che gestisce un agriturismo, un informatico con la passione per la fotografia.  

Come piemontese doveva occuparsi della protesta contro l’Alta Velocità?
Sono cresciuto e vivo a Torino, per me parlare di questa realtà era quasi naturale, anzi necessario. Ci siamo detti tra noi come è possibile che andiamo a girare un documentario in Bosnia (Rata nece biti, ndr.) e quel che succede a casa nostra non lo raccontiamo. Ho recuperato una serie di contatti che già avevo, amici della valle che erano coinvolti in questa vicenda.

Sembra quasi che lei abbia rinviato nel tempo questo suo coinvolgimento nel progetto?
Non sono un giornalista o un reporter, non mi sento a mio agio nel raccontare l’attualità. Ho bisogno di una distanza che sia narrativa, temporale, anche spaziale. Di sicuro è più semplice occuparsi di cose che stanno lontane perché in qualche modo ti separi dalla tua vita. Qui invece sei coinvolto quotidianamente, perché conosci le persone, i posti.   

Il documentario propone un unico punto di vista, perché?
Ho cercato di capire a trecentosessanta gradi, poi ho fatto una scelta molto forte, quella di un documentario schierato che assume un punto di vista e lo fa suo. Ma non è un volantino, non voglio convincere nessuno. Ho voluto ascoltare delle storie, delle voci, dei silenzi e guardare dei volti. Sapevo che in questa melassa mediatica queste voci erano minoritarie, pur essendo coinvolte in prima persona nel progetto TAV che riguarda casa loro.

Perché non ha messo alcuna voce favorevole alla TAV?
Ho cercato di mettere nel doc tutte le voci possibili di questa vicenda, dai cattolici agli anarchici e tutti trovano giusto protestare. Avevo sentito anche esponenti politici e tecnici a favore dell’opera e poi ho preferito non inserirli, perché non s’accordavano con il senso del mio lavoro e del resto già altri l’hanno fatto come una bellissima e istruttiva puntata di ‘Report’. Ripeto, non voglio convincere nessuno, ho realizzato un documentario chiaramente partigiano e schierato, ma non fazioso, non è un volantino. Il problema non è più ‘Sì’ o ‘No’ alla Torino-Lione, ma è ben più grave e complicato: quale è il senso della cittadinanza oggi.

Questo documentario è anche l’occasione per una riflessione più ampia sul Paese?
All’ordine del giorno c’è una situazione che va oltre la Val di Susa, è il ‘Qui’ del film che diventa ‘Ovunque’. Anche l’Emilia e Romagna, che sempre è stata in testa all’affluenza elettorale, conosce oggi un astensionismo fatto di cifre ragguardevoli. E’ il sintomo che si è spezzato quel patto primario tra il cittadino e lo Stato. Così la vicenda della Val Susa è il paradigma di quel che succede a livello nazionale. E se una situazione economica e sociale viene trasferita sul piano inclinato dell’ordine pubblico il rischio è che questo diventi il modus operandi.

Che cosa dimostra allora la protesta degli abitanti della Val Susa?
Che la politica esiste, non quella dei partiti o le chiacchiere di ‘Ballarò, ma della gente che, di fronte a un problema reale, esce di casa e fa politica, recuperando il senso fondamentale del termine. Ma questo patrimonio è stato dilapidato, sbeffeggiato dai media.

La democrazia è dunque un bene fragile che chiede attenzione?
Oggi rischia di diventare un casa scatola vuota. Aveva ragione George Orwell quando affermava: attenzione la democrazia è il tronco sul quale siamo seduti a cavalcioni.

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