‘Gabriella’, ritratto d’artista

Il documentario di Giovanni Filippetto con la regia di Alessandro Galluzzi, è una coproduzione di Red Film, Rai Documentari e Cinecittà. Celebra Gabriella Ferri e il suo lascito umano e artistico

Gabriella

“Grazie alla vita che mi ha dato tanto”, cantava Gabriella Ferri, ma quanto ci ha dato invece lei?

Cantante, attrice, interprete, clown e simbolo stesso di un’intera città. Con la sua personalità esplosiva, affascinante e a tratti oscura, ha saputo rappresentare come pochi l’essenza più profonda della sua Roma.

Il documentario Gabriella, di Giovanni Filippetto con la regia di Alessandro Galluzzi, è una coproduzione di Red Film, Rai Documentari e Cinecittà. Sarà trasmesso in prima serata su Rai 3 sabato 12 ottobre e verrà presentato in anteprima giovedì 10 ottobre alle 19.00 al Cinema Farnese Arthouse, nel quartiere di Campo de’ Fiori, un luogo caro all’artista.

Questo racconto intimo ripercorre la vita di Ferri, dalla nascita nel quartiere Testaccio fino ai suoi successi negli anni Ottanta. La sua voce iconica ha celebrato Roma e ne è stata amata con la stessa intensità.

La capitale ha sempre accompagnato Gabriella fin dagli inizi della sua carriera. Dopo i primi passi a Milano in coppia con Luisa De Santis, tornò da sola nella sua città nel 1966, entrando a far parte del Bagaglino come cantante ufficiale. Artista eclettica, è ricordata per le sue esibizioni in celebri programmi Rai come Dove sta Zazà e Mazzabubú. Nel 1969 partecipò al Festival di Sanremo, esibendosi con Stevie Wonder in “Se tu ragazzo mio”. Ne parla meravigliosamente in un punto del documentario: “Ci siamo voluti bene come due persone che parlano lo stesso linguaggio e ci capiscono al volo, il resto sono affari nostri”.

Negli anni ’70 conquistò il successo discografico, sia in Italia che in Sud America, facendo innamorare il pubblico con i suoi stornelli romani e non solo.

Amici e colleghi come Carlo Verdone, Tosca, Renzo Arbore, Syria, Pierfrancesco Pingitore, Pippo Franco e molti altri la ricordano con affetto e commozione.

Il suo lascito è ancora vivo e potente grazie a una nuova generazione di artisti romani che si sono ispirati alla sua voce e al suo spirito.

“E’ da un po’ che faccio documentari – spiega Filippetto – Nessuno aveva realizzato un prodotto del genere, c’erano stati tanti speciali ma non un documentario. Ed è una figura controversa dello spettacolo italiano, amata ma con grandi lati oscuri, mi piaceva indagare su questo. E’ stata una meteora ma con grandi doti artistiche e una grande personalità. Il mondo della musica non sempre l’ha apprezzata come avrebbe dovuto, forse proprio per il suo carattere, molto indipendente. Era difficile in quel caso irreggimentarla in un business, è rimasta esclusa. Proprio perché in pochi l’avevano raccontata”.

Tra i temi del film, il rapporto con il figlio Borzak: “Mi sono messo in contatto con lui – dice ancora l’autore –  perché lo volevo coinvolto, non mi piaceva l’idea di non avere il beneplacito della famiglia. Nell’intervista è stato molto generoso, così come le due figlie e le nipoti, che mi hanno fatto da punto di partenza. Da lì ho raccontato un periodo che va da quando si affaccia a Piazza del Popolo a diciott’anni, passando per il successo in tv e quello discografico, mi fermo agli anni ‘80. Da piccolo Borzak ha vissuto il rapporto con la madre con difficoltà. La vedeva stare male, soffrire per il suo lavoro. Quindi il mondo della musica la faceva stare male. Soffriva perché i discografici la allontanavano, e magari aveva paura di salire su un palco. Poi nel corso del tempo è riuscito ad avere tanto rapporto e ad essere molto uniti. Non che prima non lo fossero ma provava una sofferenza di rimando. Gli altri figli fanno quasi tutti musica, l’eredità è passata alla famiglia, mentre lui fa tutt’altro, ma ne riconosce il valore. E d’altro canto da bambino ha fatto esperienze pazzesche, a Campo de’ Fiori, al ristorante ‘La Carbonara’ dove la mamma si esibiva con gli stornelli, quini gli ha trasmesso la conoscenza degli altri”.

Poi c’è il rapporto con la popolarità, a più livelli. Nel senso di recupero dello spirito del canto popolare, ma anche della sua personale e crescente popolarità: “il successo arriva con le canzoni popolari. C’era molto mainstream, il mondo dei cantautori, mentre lei ha reinterpretato le canzoni dialettali, anche siciliane e napoletane, stravolgendo il senso delle canzoni. Alcune scritte per essere tristi diventavano ironiche e il contrario, come ‘Dova sta Zazzà’, con una grande capacità di interpretare i versi. Se oggi andasse a X-Factor magari non la prenderebbe”.

Infine, il tema della bellezza. Ferri era una donna bellissima, come Monica Vitti e Anna Magnani, ma comprensibilmente ricordata soprattutto per il suo talento.

“Nel documentario Tosca – chiude Filippetto – dice che in quel momento in televisione c’era il clamoroso charme di Mina e l’ombelico di Raffaella Carrà. Due prototipi di donna decisi e rivoluzionari, tutte e due belle. Lei invece andava in prima serata su Rai Uno e si rendeva una maschera, un clown, come se fosse Ridolini. Si taglia i capelli, si arrossisce le guance, ha portato sé stessa fuori dagli schemi e dai canoni, con tutti i suoi occhi pazzeschi, con il suo fascino, ma si propone in maniera del tutto diversa di ciò che c’era sia a livello di mainstream che di rivoluzone. Era assolutamente unica. Canta canzoni popolari, ma lontana dal pop. In luoghi popolari dove c’è tanto spazio di racconto e di interesse, pur espulso dalle case discografiche. Lei stessa ha avuto più successo in tv che nei negozi di dischi. Era un mondo che non le apparteneva”.

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08 Ottobre 2024

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