Non è esattamente il classico film di Natale ma uscirà il 12 dicembre in 250 copie distribuite da 01 l’ultima fatica di Gabriele Salvatores Come Dio comanda, tratta dall’omonimo libro di Niccolò Ammaniti. “Abbiamo pensato che non tutti a Natale vogliono vedere un film natalizio e poi dato che le aspettative vengono spesso ribaltate ci è sembrato giusto andare controcorrente”, dichiara Caterina D’Amico, di Rai Cinema. Mentre il produttore Colorado, Maurizio Totti, è convinto che i film delle Feste siano un po’ tutti uguali, “almeno c’è qualcosa di diverso”. Sembra un film di guerra, girato in un Friuli aspro e piovoso, tra fango, ghiaia, pietre, torrenti e luoghi desolati, un film molto duro, concentrato sul rapporto quasi simbiotico tra un padre e suo figlio adolescente. Il padre (Filippo Timi, molto bravo come sempre), senza lavoro e semialcolizzato, insegna al figlio (Alvaro Caleca, un volto che resta impresso) a difendersi da tutto e tutti, a odiare gli stranieri e i deboli, a diffidare dei servizi sociali, che vogliono separarli. Il loro unico amico è Quattro Formaggi (Elio Germano), un tipo mentalmente fulminato dopo un brutto incidente sul lavoro, che passa le sue giornate tra un grande presepe in cui trovano posto anche Pinocchio e i Puffi e l’ossessione per la pornografia. “Il film è una favola nera su un padre cattivo che insegna l’odio con amore”, dice Gabriele Salvatores. Dopo Io non ho paura, ecco un’altra tappa di un percorso di avvicinamento alla figura paterna, con le sue contraddizioni, le sue storture, ma anche con un’immensa voglia di ricostruire un legame familiare messo in discussione negli anni ’70.
Ha cercato di nuovo ispirazione in un romanzo di Ammaniti, dopo “Io non ho paura”.
Ormai tra me e Niccolò c’è un vero rapporto di amicizia. Ho letto “Come Dio comanda” in aereo mentre andavo in Australia. Un libro di 500 pagine, da cui si potevano fare due, tre film. Abbiamo scelto, d’accordo con Niccolò e l’altro sceneggiatore Antonio Manzini, di togliere tanti personaggi e concentrarci sulla storia di questo padre borderline. Mi piace il modo in cui nei suoi libri Niccolò racconta l’Italia contemporanea in chiave horror o splatter ma sempre con una dimensione ancestrale, che supera la quotidianità.
La paternità la interessa al punto da scegliere un universo senza donne, dove tutto si gioca tra maschi, attraverso la sfida.
Intanto l’importanza del femminile si vede anche dalla sua assenza. Poi per me c’è una riflessione più generale: si dice che la donna è l’angelo del focolare e che l’uomo è cacciatore. Ma io penso che la donna sia mobile, nel senso di libera, creativa, e che l’uomo potrebbe usare i propri muscoli per difendere il nido come fanno i canarini. Tra i canarini accade così: le femmine emigrano d’inverno verso il caldo, i maschi restano a proteggere in nido soffrendo moltissimo, ma poi quando arriva la primavera e le compagne tornano a casa scoprono cos’è la gratitudine femminile.
Lei sembra anche dire che è meglio un padre padrone di un padre assente.
La messa in discussione dei ruoli familiari e dell’autorità negli anni ’70 è stata importante, ma bisognava in qualche modo tenere la posizione. Crescere vuol dire superare quello che ci è stato insegnato e a volte anche imposto. Altrimenti c’è la follia. L’80% dei fatti di sangue in Italia si svolge in famiglia.
Ha citato spesso Shakespeare, che la ispirò ai suoi inizi, come modello per questo dramma a tre personaggi.
C’è un re, padre-padrone, un giovane principe in crisi e un fool. Tutti e tre in un bosco, durante una tempesta, vittime dei giochi del destino. Ecco Shakespeare ed ecco la favola nera.
Anche se il film racconta uno stupro e un omicidio, lei ha cercato di evitare i riferimenti diretti alla cronaca nera.
L’uso della cronaca sta invadendo troppo le nostre vite, quindi ho cercato di mettere i personaggi in una dimensione di favola, un Capuccetto rosso in versione nera. Anche l’autore del delitto potrebbe destare la nostra tenerezza.
Del resto l’ambientazione nel Nordest è distante dalle cronache.
Ho cercato di levare i riferimenti ai telegiornali, ma mi piaceva l’idea di girare in Friuli, in una terra speculare alla Puglia di Io non ho paura. Lì faceva caldo ma tra padre e figlio c’era freddezza e insincerità, qui è un posto freddissimo, dove nevica e piove sempre, ma i rapporti tra i personaggi sono caldissimi, la natura è bella, forte, dominata dalle montagne che si innalzano subito senza la mediazione delle colline.
Rino Zena insegna a suo figlio il razzismo e la xenofobia.
Si difende da un mondo che gli fa paura, ma curiosamente anche quel mondo ha paura di lui. Bisognerebbe che dialogassero, e anche un film può essere un modo per dialogare.
C’è un figlio che dubita del padre, un padre che mette in dubbio l’esistenza di Dio di fronte alla bara della figlia… Il tema della fede è sotterraneo ma ben presente.
E’ vero, c’è questa riflessione. Ma le preghiere e le invocazioni risuonano in un paese deserto, dove non succede niente… Forse Dio esiste, ma non si fa vedere molto tra noi, è un padre distante. Come dice una poesia di Prevert: “Padre nostro che sei nei cieli, restaci pure”.
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