Gabriele Salvatores: l’intervista


COURMAYEUR – “Su Torino non ho nulla da dire, ho parlato con queste persone una volta prima dell’estate e i giornali hanno scritto di tutto. Non so niente, non ho ricevuto nessuna proposta ufficiale. Non so cosa dire se non che avrei dei problemi a dirigere il festival, visto che l’anno prossimo nel giro di un anno e mezzo, devo girare due film”. E qui si chiude la questione, perché Gabriele Salvatores, convitato di pietra di tantissime cronache e polemiche legate al futuro del Tff, è al Noir in Festival di Courmayeur per proporre in anteprima (in attesa dell’uscita a fine febbraio e della probabile partecipazione alla Berlinale) alcune immagini dell’atteso Educazione siberiana, kolossal noir tratto dal best-seller omonimo di Nicolai Lilin e ambientato nel sud della Russia tra il 1985 e il 1995, momento in cui cadevano il muro di Berlino e l’Urss. Il romanzo, come il film, è la storia di “un’educazione criminale”, quella che lo scrittore – anch’egli a Courmayeur insieme ai due giovani interpreti lituani Arnas Fedaravicius e Vilius Tumalavicius – ha vissuto nella sua infanzia. E di cui porta i segni nei tatuaggi sulle mani che fungono da simbolo di un codice d’onore tutto particolare. “Ho ricevuto almeno otto proposte di adattamento del mio libro – ha raccontato Lilin – ma le ho rifiutate tutte, anche da grandi nomi di Hollywood, perché mi parlavano solo di mafia russa e lo paragonavano a La promessa dell’assassino di Cronenberg. Invece Gabriele ha detto che era una storia sul vecchio mondo che crolla sotto l’onda del nuovo: è l’unico regista che ha capito. Ed è una persona umana e sincera”. Un idillio, dunque, quello che si è creato tra l’autore – che ha citato La storia di De Gregori per rendere l’idea del cuore di questo racconto – e il regista, che hanno collaborato all’adattamento cinematografico. Che però è firmato dal cineasta con Stefano Rulli e Sandro Petraglia.

Salvatores, Educazione siberiana è stato un progetto coraggioso?
E’ come se fosse il mio primo film, perché è stato il film delle prime volte. E’ il primo che faccio che non è partito da una mia idea; è il più importante dal punto di vista produttivo e artistico che abbia mai fatto. E’ il primo film che giro in inglese e non c’è nemmeno uno dei miei amichetti attori: somiglia al sogno di cinema che avevo quando ero ragazzo.

Lei ha sempre sperimentato cose nuove, sia tecnologicamente che visivamente. Qui qual era la sfida maggiore?
Le riprese hanno avuto una durata molto lunga e sono state fatte in condizioni proibitive, con il freddo polare e la neve. Poi ho girato con tre macchine da presa e realizzato 1300 inquadrature, mentre mediamente ne faccio 600. C’era una troupe di 105 persone tra italiani e lituani e ho dovuto rinunciare all’abitudine di salutare tutti a fine giornata. Per certi versi non è un film italiano.

Lilin è rimasto colpito dal fatto che ha trovato l’umanità della storia.
E’ vero, non racconto il crollo dell’Urss e non ho un intento sociale né documentaristico. E’ piuttosto una serie di vicende, ricordi e aneddoti personali legati da un filo rosso. Va letto più come un passaggio dall’età adolescente a quella adulta. I due protagonisti sono parte dello stesso cuore e, in un passaggio epocale forte, sono strappati l’uno dall’altro e reagiscono in modo diverso ai cambiamenti.

Ci parla delle musiche? Di solito sono importanti nei suoi film.
Le musiche originali sono di Mauro Pagani, artista che conosco da tanto tempo e che ha fatto altre colonne sonore dei miei film. E’ un violinista e perciò usa uno degli strumenti della tradizione russa. Ha una sensibilità rock, anche se non ci sarà nulla di rock nel film. In generale quella di Educazione siberiana è una musica interna, proprio perché il film è imponente, ha una musica intima. E poi ci sono due canzoni, una la canta lo stesso Nicolai, l’altra, in un momento che amo molto, la canta David Bowie, nella scena della giostra.

A quale dei suoi precedenti 14 film somiglia di più?
Con lo scenografo e il direttore della fotografia abbiamo detto spesso che ricordava Nirvana, perché crea un mondo. Il che ha reso le cose complicate: in Lituania non ci sono più scritte cirilliche, dalle cose minuscole a quelle enormi, le abbiamo dovute replicare. E’ un film in costume, poi, su una comunità di “criminali onesti”. C’è dentro un rapporto strano con la religione: c’è un’icona della Madonna con in mano due pistole.

Com’è andata con John Malkovich?
Su di lui avevo sentito voci terrorizzanti, del tipo che è un uomo educato ma in un attimo può metterti le mani al collo. Non è stato così. Siamo partiti dal legame intimo dell’età, i 60 anni, che sono un passaggio particolare, epocale, come la caduta del blocco comunista. E abbiamo una storia simile: siamo stati chitarristi, volevamo fare le rockstar, poi abbiamo fatto teatro e infine cinema. Ho costruito il personaggio di John su questo, indipendentemente dal fatto che fosse il capomafia, mi interessava come ultimo dei mohicani.

Ha girato per lungo tempo all’estero in questo difficile momento storico. E’ stato anche un modo per fuggire dal suo Paese?
Certo, se penso a questi ultimi giorni mi sembra di stare in un horror, ma no, ho seguito il consiglio del mio analista e ho deciso di diventare adulto, uscire dal guscio e fare qualcosa di diverso che mi mettesse paura. Comunque in Italia si ha paura a toccare certi temi, la nostra storia oggi è molto difficile da raccontare, è una storia piccola, triste, non emozionante. Capisci di più con Report, la tv, la rete, cercando informazioni che non vengono passate dall’ufficialità.

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12 Dicembre 2012

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