Allo sprint finale della sua prima, grande avventura americana, Gabriele Muccino, pur lontano dall’Italia da molti mesi, continua a restare al centro dell’attenzione della stampa e del pubblico italiano. Raggiunto telefonicamente a Los Angeles, il regista di L’ultimo bacio ha raccontato a CinecittàNews la sua esperienza di The Pursuit of Happyness, una megaproduzione hollywoodiana da 60 milioni di dollari della Columbia Pictures con protagonista Will Smith, uno degli attori meglio pagati del pianeta.
Com’è stata la sua esperienza americana, e a che punto è la realizzazione del film?
Il film è sostanzialmente finito, siamo alla fase del missaggio e tra due o tre settimane sarà pronto. Girarlo è stata un’esperienza esaltante, tanto più perché mi è piombata letteralmente addosso, visto che non sono stato io a cercarla ma lei a cercare me. Tra l’altro, da quando ho diretto L’ultimo bacio ci sono stati tantissimi abboccamenti e tante idee di film accarezzate ma poi abbandonate, come il remake americano di C’eravamo tanto amati o un film con Al Pacino. Ma è tutto normale, perché in America la percentuale di progetti messi in cantiere e poi abbandonati è altissima.
Come ha lavorato con Will Smith?
Benissimo. Si è messo completamente nelle mie mani, come potevano fare in Italia Giorgio Pasotti o Stefano Accorsi.
Quali sono state le difficoltà di girare un film in un contesto tanto diverso?
In generale non è facile girare dei film negli Stati Uniti, e per quelli indipendenti i problemi sono ancora più grandi che da noi. Qui, visti anche i grandi budget, i film devono essere assolutamente senza rischi, insomma devono piacere a tutti. Questo finisce per renderli spesso simili tra loro, ma con The Pursuit of Happyness, nonostante tutto, sono riuscito a fare un film che si sposa con le mie corde. Inizialmente, poi, è stato difficile riuscire a seguire il mio istinto registico a dispetto delle barriere linguistiche e culturali.
Che tipo di film è The Pursuit of Happyness?
E’ un film in qualche modo “spigoloso”, con una forte componente umanistica. E’ incentrato sulla parabola del sogno americano e c’è una discesa agli inferi che diventa anche molto angosciante. Il protagonista, che sogna di diventare un broker, si ritrova in miseria e si trova a fare la vita degli homeless. Lo vediamo di notte alle prese con questa vita, in cui è coinvolto anche il figlio di 6 anni, e di giorno in giacca e cravatta a cercare di fare carriera in ambienti molto seri. Come la storia vera da cui è tratto, anche il film finisce bene e Will Smith corona il suo sogno. Girandolo ho toccato con mano il fatto che qui in America il tempo dei cercatori d’oro non è finito: è un mondo in cui dominano l’individualismo e la competitività, ma anche in cui le persone di talento riescono ad avere la loro possibilità, qualsiasi sia la loro provenienza.
E’ stato sottoposto a dei test con il pubblico?
Sì. Abbiamo fatto un test a Seattle ed è andato straordinariamente bene. Abbiamo avuto una percentuale di gradimento dell’88%, che è altissima. Sono molto contento del risultato, mi auguro che le prossime esperienze siano all’altezza di questa.
Si parlava di un secondo film con Will Smith…
Sì, ma ci tengo a dire che non lo farò. Mi è stato offerto un film diversissimo da questo, su un supereroe depresso in cerca di amore, pieno di effetti speciali e con una sceneggiatura che non mi convinceva. Penso di non essere il regista adatto, e di poter dare il mio contributo al cinema americano su altri registri che mi appartengono di più.
Quali sono i progetti del suo immediato futuro?
Tornerò prestissimo in Italia per rimanerci a lungo, anche perché voglio stare vicino alla mia famiglia. Professionalmente non so ancora che farò, mi muoverò in base ai progetti che più mi interessano, indipendentemente dal fatto che siano italiani o americani.
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