“Se questo film non funzionerà, sarà soltanto colpa mia”. Al suo terzo lungometraggio, Prima la musica, poi le parole, che dopo aver girato 29 festival ha finalmente trovato una distribuzione in Italia, la Lantia Cinema di Beppe Attene, Fulvio Wetzl si assume in pieno la responsabilità del risultato. “E proprio per questo sto girando tutta l’Italia per promuovere il mio film presso gli esercenti e convincerli a proiettarlo: devo dire che i gestori di sale cinematografiche sembrano molto sorpresi e soddisfatti di venire consultati, una volta tanto. Sogno di convincere il piccolo ma tenace pubblico del cinema di qualità a scegliere una volta tanto un film italiano. Vorrei fare quello che ha fatto Silvio Soldini con il suo bellissimo Pane e tulipani, che è partito con 16 copie ed è arrivato a 80, senza che l’Istituto Luce abbia investito in una promozione particolare a parte quello che si fa sempre: locandine, cartoline, cartelloni. Semplicemente chi ha visto il film lo ha amato e ha sparso la voce. Spero che succeda la stessa cosa anche a me: i registi italiani hanno il brutto vizio di lamentarsi e basta, invece bisogna agire.
Come mai il tuo film ha faticato tanto a trovare una distribuzione?
Perché non c’era prevendita televisiva, e quindi il rischio di impresa era particolarmente alto. Ma come i produttori si sono innamorati del progetto, così è successo anche con i distributori. Fortunatamente il mio non è un instant-movie, non è legato a temi di attualità e quindi non invecchia, anzi migliora col tempo.
Sei partito da riflessioni di linguistica e matematica per l’idea del soggetto, per esempio dalle geometrie non euclidee?
Il riferimento alle geometrie non euclidee – come esempio classico di un “linguaggio” altro con una sua completezza e una sua dignità – è trasparente ed è anche molto esplicito verso la fine della storia. Quando ho scritto la sceneggiatura, nel ’90/91, del resto, il primo titolo che avevo scelto era proprio Geometria non euclidea. L’idea che sta dietro a tutto il film è che bisogna imparare il linguaggio dell’altro e non imporre un proprio codice, per non creare dei mostri, e la chiave per riuscire in questa impresa è l’ascolto. Degli adulti, ma anche e soprattutto dei bambini. Nel rapporto tra padre e figlio nel mio film c’è amore, c’è un’assurda dedizione assoluta, c’è un delirio di possesso, ma non c’è parità, perché non si gioca mai da pari a pari con un bambino, come sostengono invece i pedofili. E infatti, in una delle scene finali del film, quando si vedono tutte le fotografie del piccolo Giovanni, il richiamo è a un film di Powell, L’occhio che uccide, un’altra storia di passioni malate con una figura di padre molto cupa.
Come hai scelto i tuoi attori?
Ci ho messo dieci anni per fare questo film, e ho voluto un cast multiregionale: Gigio Alberti è milanese; Anna Bonaiuto viene dal clan napoletano pur non essendo napoletana; Barbara Enrichi è toscana, e così via. Jacques Perrin, poi, è stata una scelta veramente mia, dato che la produzione è tutta italiana e quindi non avevo gli obblighi classici di casting legati alle coproduzioni. Ho voluto Perrin perché ha la storia del cinema scritta in faccia, non tanto per le ultime cose che ha fatto, ma per film come Cronaca familiare di Zurlini.
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