VENEZIA Dieci settimane di riprese e dodici mesi di montaggio. Un lavoro, come al suo solito, monumentale per Frederick Wiseman, tra i più celebrati documentaristi del mondo e già autore in passato di numerosissime opere in cui, a partire da uno dei tanti luoghi della nostra quotidianità, riusciva a raccontare mondi, e relazioni umane e sociali con garbo e profondità. A raccontare la vita, insomma. Finora ha esplorato spazi (sempre molto simbolici) come Central Park, il balletto dell’Opera di Parigi, una high school, un ospedale e le quattro pareti ombrose che fanno da teatro alla violenza domestica, trasformando il quotidiano in epico, il dettaglio in rivelazione. E muovendosi agilmente tra Stati Uniti e Francia. E’ in quest’ultimo paese che ha puntato la telecamera per il film che porta alle Giornate degli Autori: Crazy Horse, che naturalmente racconta l’universo – nascosto e non – del più celebre teatro di spettacoli erotici, in cui il nudo diventa arte. Dal dietro le quinte alle prove dei numeri nuovi, alle riunioni tra il coreografo e il suo staff, ai confronti tra i tecnici; per svelare non solo un luogo mitico, ma anche l’universo femminile, il concetto di pudore, le eterne dinamiche conflittuali tra arte e mercato, le diverse dimensioni del corpo e della visione. Difficili da vedere in Italia, le opere del giovane ottantunenne Wiseman sono però ricercatissime dai festival (il documentario precedente, Boxing Gym, passò alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes) e sui nostri schermi possono essere scovate nei palinsesti di Enrico Ghezzi.
Ciò che colpisce nei suoi film è la sensazione di naturalezza, come se i soggetti non fossero scrutati da una macchina da presa. Come ci riesce?
Giro tantissimo, e cerco di essere diretto e non nascondere nulla ai miei interlocutori. Da quando ho iniziato a fare film nessuno con me ha mai guardato in macchina. C’è da dire che, nella mia esperienza, la stragrande maggioranza delle persone non ha obiezioni nel farsi riprendere. Per Crazy Horse ho seguito i miei personaggi ogni giorno.
Rispetto a Boxing Gym, ambientato in una palestra di boxe, Crazy Horse esplora un ambiente più strutturato. In cosa è cambiato il suo lavoro nel riprenderlo?
Non in molto, soprattutto nel fatto che nella palestra le persone che riprendevo non erano mai le stesse tranne il proprietario e la moglie, mentre al Crazy Horse erano sempre loro, artisti, manager e tecnici del teatro.
Crazy Horse racconta un mondo femminile inconsueto. Cosa ha scoperto?
Le donne che ballano quasi nude nel Crazy Horse sono donne che, prima di tutto, amano la danza. Spesso hanno fatto anni di studi in Accademia ma, visto che è molto difficile entrare nei grandi corpi di ballo, non avendo problemi con la nudità, sono andate a lavorare al Crazy Horse. Ho molto rispetto per queste donne, che lavorano duro magari da quando sono bambine e la cui carriera non può durare oltre i 35 anni.
Infatti nel film molte di loro pongono dei limiti di pudore, ad esempio preferiscono non toccarsi troppo tra loro.
Non penso siano puritane, ma solo delle persone normali. Solo per il fatto di lavorare al Crazy Horse non significa che siano call-girl: sono solo donne che ballano, e tra l’altro i loro datori di lavoro le proteggono da ogni possibile pericolo.
Nel film si approfondisce anche l’eterno conflitto tra creatività e mercato.
In ogni forma d’arte bisogna avere a che fare con il mercato. Negli Stati Uniti, ad esempio, è difficile trovare denaro per produrre film come i miei, ma io ne sono sempre totalmente proprietario, prendo tutte le decisioni e non devo soddisfare le esigenze economiche di nessuno che vuole arricchirsi. Lavoro nella più totale libertà.
Sta già lavorando a un nuovo documentario?
In realtà ne ho già girato uno sull’università, a Berkeley, esplorando aule, uffici amministrativi, cortili, e riscontrando gentilezza e accoglienza da parte di tutti.
Le piacerebbe girarne uno in Italia? E che luogo sceglierebbe?
Il Vaticano sarebbe molto interessante. Anzi se qualcuno riuscisse a farmi avere l’autorizzazione a girare lì comincerei domani. A parte gli scherzi, non credo che potrei mai fare un documentario in Italia, semplicemente perché non parlo la lingua ed è impossibile fare film come i miei senza capire le persone che parlano.
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