Francois Ozon è in concorso al Festival di Cannes con il suo nuovo film Jeune et jolie, storia di una diciassettenne che scopre la sua sessualità. Non così era andata con la sua pellicola precedente, Nella casa, uscita il 18 aprile in Italia con la Bim sull’onda del festival romano Rendez Vous, che l’ha scelto come film d’apertura. Nella casa è un bellissimo thriller per certi versi alleniano – venato di molta ironia e con irruzioni fantasmatiche di un personaggio nelle scene vissuta da un altro personaggio – su come si scrive un buon romanzo, sulla complicità possibile tra un padre e un figlio, non necessariamente biologici, sull’inviolabilità della famiglia borghese, con echi di Pasolini (Teorema) e Bergman (Il posto delle fragole). Ha vinto molti premi, tra cui la Concha de oro a San Sebastian. Ma Cannes 2012 non l’ha voluto. “Non hanno scelto né Potiche La bella statuina, che secondo loro non sarebbe piaciuto agli stranieri e che invece a Venezia è andato molto bene e neppure questo”. Come mai, forse perché il concorso di Cannes è un club esclusivo dove si trovano sempre gli stessi ospiti? “Beh, ci sono così tanti registi francesi che è impossibile trovare spazio per tutti, mentre per altri paesi la selezione è più facile ed è vero che vengono invitati un po’ sempre gli stessi, ma certi nomi, come Moretti e Almodovar, lo meritano davvero, è normale che ci siano”.
Lei è partito da una pièce spagnola, “Il ragazzo dell’ultimo banco” di Juan Mayorga. Come ci ha lavorato?
Mi è capitato spesso di lavorare a degli adattamenti teatrali, con Otto donne e un mistero, con Potiche, con Gocce d’acqua su pietre roventi, tratto da Fassbinder. Ma in tutti in quei casi ho portato il teatro dentro al film, qui invece volevo dimenticare l’ascendenza teatrale e condurre lo spettatore dentro un linguaggio puramente cinematografico, cancellando tutti gli elementi di teatralità per usare un tono piu realistico.
Per questo ha modificato il titolo, suggerendo un’unità di luogo, la casa della famiglia borghese modello, dove il liceale Claude (Ernst Umhauer) si insinua per trovare ispirazione ai suoi scritti, istigato dal professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini)?
Sì, è così, Il ragazzo dell’ultimo banco non era il film che volevo fare, io volevo parlare di me, volevo rendere quella storia una metafora del fare film, dello scrivere libri. Mi interessava appunto riflettere sul processo della creazione artistica.
C’è un elemento di forte voyeurismo e di manipolazione nel modo in cui Claude e Germain scrivono la storia della famiglia di Rapha, il compagno di scuola scarso in matematica, di sua madre (Emmanuelle Seigner) e di suo padre.
Io, per raccontare, ho bisogno di una base documentaria, devo fare delle ricerche, ispirarmi a ciò che vedo per la strada oppure a qualcosa che mi viene raccontato. Non so se questo sia voyeurismo, ma anche se così fosse non lo vedo come qualcosa di negativo, anche se in questo film è portato agli estremi.
Come mai ha deciso di far apparire il “fantasma” di Germain durante le incursioni di Claude nella casa?
E’ un dispositivo che Ingmar Bergman usa nel Posto delle fragole e che Woody Allen ha impiegato molto spesso. Poco a poco immaginario e realtà vengono messi sullo stesso piano. I desideri e le fantasie si incarnano. Il professore sta investendo moltissimo in quello che Claude fa e scrive, dunque è normale che si materializzi al suo fianco.
C’è un evidente legame con “Teorema” di Pasolini.
E’ vero, Claude si illude di poter penetrare in questa famiglia e farla implodere, ma alla fine i legami familiari prevalgono, il clan si rinsalda ed espelle l’intruso. Però in un certo senso c’è un lieto fine, perché due solitudini, quelle di Claude e Germain, si sono trovate. Due sradicati si specchiano nel loro gusto per l’immaginario.
In fondo per Claude è una ricerca della figura paterna. Ci sono tre padri: quello reale, bisognoso e povero; quello ideale, rappresentato da Rapha, uomo normale e simpatico anche se terra terra; e infine Germain, il professore, l’intellettuale. E Claude alla fine sceglie quest’ultimo, che gli somiglia maggiormente.
Non ci avevo pensato, ma è proprio così. Nella pièce il vero padre di Claude non si vedeva mai, ma io ho pensato di mostrarlo per far comprendere i motivi profondi del cinismo, dell’ironia e della voglia di scardinare quella famiglia borghese e perfetta. Claude sta cercando il suo posto nella vita. E’ vero, all’inizio pensa che Rapha sia il padre ideale, ma alla fine sceglie appunto Germain.
Nel rapporto di Germain con la moglie (Kristin Scott Thomas), gallerista d’arte contemporanea, si scontrano due visioni contrapposte dell’arte.
Il cinema sembra poter conciliare questo antagonismo tra un’idea classica e conservatrice e un’altra più sperimentale e moderna. La mia passione per il cinema nasce anche dal fatto che sembra poter mescolare tutte le forme d’arte.
Le spiace che “Nella casa” esca in Italia doppiato?
Non ho scelta. In Italia, come in Germania e in Spagna, pare che senza doppiaggio la gente non vada a vedere i film stranieri, mentre in Francia si doppiano ormai solo i blockbuster americani. All’epoca di Otto donne e un mistero chiesi di avere le voci di otto star italiane, tra cui Sofia Loren e Monica Vitti, ma mi dissero che non era possibile e che i doppiatori italiani sono molto bravi. Spero che lo sia quello che dà voce a Fabrice Luchini, la sua recitazione è ineguagliabile.
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