Francis Ford Coppola: “Gomorra”? Una brutta esperienza


TORINO – “Ho visto Gomorra ed è stata una brutta esperienza, è un film troppo duro, anche se molto ben recitato”. Un giudizio netto, che fa un po’ impressione visto che arriva da Francis Ford Coppola autore di film durissimi, come Apocalypse Now e la saga del Padrino. Ma tant’è. Stuzzicato da una domanda sul cinema italiano contemporaneo, si lascia andare a un’analisi sociologica sul ricambio generazionale nel nostro paese. “Il Divo, che non ho visto, e Gomorra sono un po’ poco per parlare di rinascita. Specie se confrontati con i film di Rosi, Rossellini, Monicelli, Antonioni, Dino Risi e Nanni Loy. Il vostro problema sono i maschi italiani, padri che non mollano l’osso, che vogliono tutte le donne e tutta la fama per se stessi e ai figli lasciano le briciole. Per i giovani non ci sono abbastanza opportunità, anche nel cinema”.

 

L’argomento “padri & figli” è obbligato perché il cineasta americano, ospite d’onore del Torino Film Festival che l’ha insignito del Gran Premio per l’attività della sua Zoetrope, fondata quarant’anni fa insieme a George Lucas, presenta qui in anteprima italiana Tetro ovvero Segreti di famiglia, la fosca vicenda di una dinastia di artisti segnati dal potere di un patriarca assolutista, il direttore d’orchestra Carlo Tetrocini (Klaus Maria Brandauer), che incombe rapace e minaccioso sui due figli. Il maggiore è uno scrittore in piena crisi d’ispirazione (Vincent Gallo) che si fa chiamare Tetro da quando vive in esilio volontario a Buenos Aires insieme alla moglie Maribel Verdù; il più piccolo, appena diciottenne, è un ragazzo idealista che cerca a tutti i costi di ricostruire l’unità familiare. Girato in bianco e nero, un po’ come Rusty il selvaggio che ne è una sorta di prologo tematico, il film ha riportato il settantenne Coppola alla scrittura, sua passione giovanile accantonata in lunghi anni di adattamenti letterari, compreso il penultimo film Un’altra giovinezza. Segreti di famiglia sarà in sala da venerdì 20 novembre con la BIM.

 

Si è appena incontrato con Roberto Benigni, che è venuto a trovarla insieme a Nicoletta Braschi. Dica la verità, non è che pensate di lavorare insieme?

Io posso lavorare con tutti, ma non ho programmi.

 

Tra cent’anni per cosa vorrebbe essere ricordato?

Per i miei figli e i miei nipoti.

 

Crede più nel talento puro o nella fatica del lavoro artistico?

Quando avevo 17 anni ricordo che la parola più usata nella mia famiglia era proprio “talento”. Così quando sono andato a fare il militare piangevo ogni giorno, perché non riuscivo a scrivere. Finché un giorno, un mio commilitone, mi disse: “Stai tranquillo, non puoi sapere oggi se hai talento, lo scoprirai solo in futuro”. E’ importante agire così con i propri figli. Un padre deve essere capace di sostenerli anche se non hanno il genio di Herzog o l’immediatezza di Picasso. Con mia figlia Sofia ho fatto proprio questo.  

 

La colpa è sempre dei genitori o ci sono responsabilità anche dei figli?

Non è mai colpa dei figli. Per un bambino, il padre è come un Dio, può fare e dire qualsiasi cosa. Ma sono i genitori che devono permettere ai figli di prosperare e di rendersi autonomi.

 

Che idea ha del cinema?

E’ proprio l’arte che l’essere umano stava aspettando se è vero che in appena cent’anni sono nati tanti capolavori. E’ un’arte vicina al sogno, ha qualcosa di magico. Sarei stato curioso di vedere che film avrebbe fatto Goethe, che era uno scienziato, un uomo di teatro e un poeta, se fosse nato nel Novecento.

 

E’ così difficile fare un film in bianco e nero a Hollywood?

Direi impossibile. L’industria restringe sempre di più le nostre possibilità, perché pensa solo a fare soldi e vuole solo film d’azione, cartoni animati in 3D e supereroi. E’ un regno incontrastato come quello della Coca Cola. Una via d’uscita da questa dittatura è il digitale, che è il futuro del cinema. Con un bravo direttore della fotografia, anche in digitale si ottengono risultati bellissimi. Ma di certo non sarà il 3D a risolvere i problemi del cinema.

 

Il padre padrone di “Segreti di famiglia” ha qualche riferimento alla sua autobiografia, visto che anche lei è nato in una famiglia di artisti, suo padre era un musicista e direttore d’orchestra, e i suoi figli sono registi come lei.

E’ una figura che percorre tutta la tradizione occidentale, dalla mitologia greca al teatro americano. Zeus è il padre che il figlio deve spodestare, un padre che vuole tutto per sé, le donne, la fama e il potere. Ma le stesse figure le troviamo in Shakespeare, Tennessee Williams, Eugene O’Neill.

 

Rusty il selvaggio è imparentato con Tetro?

Diciamo che è suo cugino. In entrambi i casi si parla sempre di un giovane che idealizza il fratello maggiore e vorrebbe essere come lui. Avrei voluto Matt Dillon per il ruolo di Tetro, ma non poteva, e così ho scelto Vincent Gallo che ha qualcosa di Antonin Artaud, un poeta e drammaturgo maledetto, che lottò contro le convenzioni.

 

E’ vero che è stato “Ottobre” di Ejsenstein a spingerla a fare il regista di cinema?

E’ vero. Studiavo teatro, avevo appena 17 anni, e capitai per caso a una proiezione di quel film, eravamo solo in tre in sala. All’uscita decisi di lasciare il teatro e dedicarmi al cinema. Come aveva fatto lo stesso Ejsenstein. Ho capito immediatamente che il montaggio rende possibile un’alchimia che permette di giocare con le scene e mi sono iscritto all’UCLA.

 

Cosa ricorda invece di “Scarpette rosse” di Powell e Pressburger, che in “Segreti di famiglia” cita esplicitamente?

Era mio fratello che mi portava a vedere i film di Powell e Pressburger quando avevo 5 anni. Mi hanno colpito moltissimo.

 

Si sente italiano, almeno in parte?

Ho quattro nonni italiani su quattro. Tre venivano dalla zona di Napoli, uno dalla Lucania. L’America è fatta da immigrati: sono loro che hanno dato forza agli Stati Uniti.

 

autore
18 Novembre 2009

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