Torna sullo schermo Francesco Nuti, dopo l’uscita 1999 di Io amo Andrea, con Caruso zero in condotta.
Un titolo che riecheggia il Paskoski di fine anni Ottanta per raccontare, sempre in commedia, una storia molto diversa. Il rapporto di un padre quarantenne con la figlia adolescente e naturalmente ribelle, interpretata dall’esordiente Giulia Serafini.
Prodotto da Medusa, insieme alla FrancescAndrea del regista, Caruso ha sfiorato i nove miliardi di budget e va in sala, con 200 copie, venerdì 9, in un testa a testa con La stanza del figlio di Nanni Moretti.
Nuti è riuscito, complessivamente, a stare nei tempi di lavorazione (13 settimane tra Roma e Versilia), sforando di soli sette giorni rispetto al previsto. E ora aspetta i primi esiti del box office.
Com’è nato il progetto di “Caruso zero in condotta”?
Da alcune vicende che mi toccano personalmente. Mi sono ispirato a mio fratello, Giovanni, che oltre a essere il compositore delle musiche del film è un medico di famiglia e ha una figlia adolescente. Volevo raccontare quel tipo di rapporto. Poi nella stesura della sceneggiatura abbiamo limato i personaggi in funzione della storia. Per questo Caruso è uno psicoanalista, ma non per citare Paskoski: dovrebbe essere un professionista della comprensione umana e invece della figlia non sa quasi nulla. Per lo stesso motivo è vedovo, per farne un uomo solo che teme le donne e si rifugia nel rapporto con la figlia. Il titolo rimanda a un film del 1933 di Jean Vigo, ma soprattutto a Maddalena zero in condotta di De Sica.
Il film si presta a interpretazioni “sociali” anche alla luce di fattacci recenti… O no?
Caruso non è solo una commedia, ha dei toni malinconici. E comunque non merita di essere passata al setaccio degli ultimi fatti di cronaca. Ci siamo ispirati al tema delle baby-gang, che è stato trattato molto diffusamente dai giornali. Abbiamo parlato con padri, madri e psicologi, ma non bisogna perdere di vista che si tratta della rappresentazione di un attore e regista comico. Una figura che in Italia è sottoposta a infinite pressioni e, con l’eccezione di Benigni ne La vita è bella, non può certo permettersi di morire. Strano, perché, per esempio, nella Grande guerra gli attori morivano, eccome. Anch’io ho desiderato di farlo mille volte, nei miei film, ma non era possibile.
E dopo “Caruso”?
Vorrei tornare a teatro, ma non per fare cabaret. Mi piacerebbe portare in scena La metamorfosi di Kafka, un testo bellissimo e difficile a cui penso da molti anni. L’idea mi attrae, anche perché praticamente è un one-man show.
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