Oggi torna, ma in concorso, con Anime nere, thriller a tema ‘Ndrangheta’ tratto dall’omonimo romanzo di Giocchino Criaco, edito da Rubbettino Editore, che tornerà in libreria il 17 settembre, un giorno prima dell’uscita della pellicola con Good Films. Nel cast Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Anna Ferruzzo, Barbora Bobulova e l’esordiente Giuseppe Fumo, che in conferenza invita i suoi coetanei calabresi a “non seguire la strada della malavita, anche se non si trova lavoro”. “Ma ogni volta – dice il regista circa il suo ritorno alla Mostra – è come la prima. Emozionalmente parlando fai sempre il primo film”.
Ci parli del rapporto tra la pellicola e il romanzo…
Il libro mi è stato consigliato da amici e mi ha sostanzialmente fatto innamorare, tanto che per trasporlo ho rinunciato a un progetto a cui stavo lavorando. Mi ha colpito la sua carica emozionale e il fatto che, a differenza di altre storie analoghe che abbiamo visto negli ultimi anni, non esaltava il crimine pur adottando uno sguardo interno. E’ molto chiara la differenza tra le cose giuste e quelle sbagliate. Inoltre è stata l’occasione per esplorare la Calabria e l’Aspromonte, mondi che non conoscevo.
Come ha approcciato quei luoghi e le loro difficoltà intrinseche? Si dice che non si possa girare un film da quelle parti senza pagare il pizzo…
Studiando e ispezionando, come un documentarista, ancora di iniziare a delineare la sceneggiatura. Ero ossessionato dall’idea di realizzare il film proprio in quel posto. Mi sono detto che se fossi riuscito a rispettare il libro e il territorio, e le persone con cui man mano venivo in contatto, sarei riuscito a fare qualcosa di buono. Il crimine era un mantello, quel che contava era il cuore dei personaggi. Inizialmente avevo paura ma ho vissuto il film come un laboratorio e un esperimento. Tutti dicevano che ad Africo non poteva succedere niente di buono, io ho visto i locali che non avevano mai approcciato il cinema diventare attori bravissimi e integrarsi nella troupe, come manovali, come autisti. Significa piantare un seme buono per il futuro. Non ho incontrato le difficoltà che temevo, non abbiamo avuto problemi o censure. Avevo dei pregiudizi, lo ammetto, ma alla fine abbiamo lavorato addirittura con più facilità che in altri luoghi d’Italia.
Quanto si è attenuto alla trama del libro?
Come spesso accade in questi casi, per rendere al meglio il senso bisogna un po’ tradire. Il romanzo era ambientato tra gli anni ’70 e i ’90, io volevo fare invece una storia contemporanea. Inoltre i protagonisti nel libro sono amici fraterni, mentre io li ho avvicinati rendendoli fratelli veri e propri.
Perché la scelta di girare in dialetto stretto, con sottotitoli?
Non per vezzo estetico, per moda o per velleità di realizzare cose estreme. Credo che il dialetto facesse parte della trama. I calabresi si sentono ‘altro’ rispetto al resto d’Italia e anche del mondo, c’è una grossa barriera tra loro e il resto del paese. Anche se il film, spero, diventa poi universale, non il racconto di una guerra criminale ma l’analisi di cosa accade in una famiglia messa alla prova con una faida. Si parte dalla lotta con un clan rivale ma si finisce ad analizzare le lacerazioni interne della famiglia protagonista, che implode di fronte alla possibilità che una faida sopita da anni possa ricominciare. Abbiamo cercato di evitare gli aspetti più epici e mitizzanti. Si è trattato di trovare la mediazione tra il giusto sguardo empatico verso i personaggi e la distanza critica.
Cosa vince alla fine? Ineluttabilità del fato o redenzione?
Abbiamo discusso molto del finale, che naturalmente non rivelo. Lo abbiamo un po’ cambiato rispetto al libro. Certamente è un finale cupo ma secondo me ha una carica eversiva, è catartico e rompe gli schemi. Racconto un dramma, e dopotutto lo scontro tra fratelli è un archetipo.
Uno dei tanti di una cultura ancora misteriosa, arcaica…
Il libro in questo senso è una miniera. Avevo l’imbarazzo della scelta su cosa raccontare. Il protagonista Luciano è un personaggio che tende a tornare al passato, vuole restare lontano, in montagna, tra le pecore, non vuole abbracciare la modernizzazione e tutto ciò che essa comporta. Cerca una Calabria che non c’è più, ma è contraddittorio. In una scena compie un rituale con potenziali poteri curativi, bevendo la polvere della statua di un santo. Ma non si fida del tutto, ci aggiunge anche delle gocce medicinali. Una cosa o l’altra, faranno effetto… antico e moderno si fondono. E’ una montagna che fatichi a definire ‘regione’, per raggiungerla ci voglione le Jeep. Eppure c’è anche una tendenza a un moderno forse un po’ fasullo. Il criminale che si sente realizzato come malavitoso ordina per sé e gli amici delle ballerine di Lap-dance.
Ha cercato di distanziarsi dall’”Effetto Gomorra”?
Come riferimenti ho Rossellini e lo Scorsese di Mean Streets: anche le uccisioni e le scene forti le ho trattate in maniera sottile, cercando di limare il grado di spettacolarità. Però ha ambientato in una scuola una delle scene più toccanti. Mi piaceva il contrasto tra il dramma di ciò che stava accadendo e l’ambiente familiare e ‘materno’ che la scuole dovrebbe, in teoria, offrire.
Cosa possiamo aspettarci dalla carriera di Munzi, a questo punto? Questo film è un punto di partenza o un punto di arrivo?
Non so rispondere, non lo conosco ancora abbastanza, non ho preso le giuste distanze. Sono un istintivo e quando faccio un film non penso a un percorso. Posso dirle che l’ho molto sentito. Ha una natura di rottura, ma non è fasullo.
Come ha lavorato sui personaggi, per renderli credibili?
Una vecchia signora a cui è stato ucciso il figlio sputa in presenza dei carabinieri. Non è bello da vedere ma è quello che succede. C’è un sentimento anti-statale diffuso di diversi ceti della società meridionale. In realtà è una sorta di amore/odio, come un cugino da cui si cerca affetto che non si ottiene. Ma sentivo anche parlare di ‘colonia’ o di ‘invasione’. Non potevo falsare i personaggi. Siamo andati verso il realismo e una ‘normalizzazione’ dei personaggi. Non usano auto blindate come nei film americani. E’ tutto molto più semplice.
"Una pellicola schietta e a tratti brutale - si legge nella motivazione - che proietta lo spettatore in un dramma spesso ignorato: quello dei bambini soldato, derubati della propria infanzia e umanità"
"Non è assolutamente un mio pensiero che non ci si possa permettere in Italia due grandi Festival Internazionali come quelli di Venezia e di Roma. Anzi credo proprio che la moltiplicazione porti a un arricchimento. Ma è chiaro che una riflessione sulla valorizzazione e sulla diversa caratterizzazione degli appuntamenti cinematografici internazionali in Italia sia doverosa. È necessario fare sistema ed esprimere quali sono le necessità di settore al fine di valorizzare il cinema a livello internazionale"
“Non possiamo permetterci di far morire Venezia. E mi chiedo se possiamo davvero permetterci due grandi festival internazionali in Italia. Non ce l’ho con il Festival di Roma, a cui auguro ogni bene, ma una riflessione è d’obbligo”. Francesca Cima lancia la provocazione. L’occasione è il tradizionale dibattito organizzato dal Sncci alla Casa del Cinema. A metà strada tra la 71° Mostra, che si è conclusa da poche settimane, e il 9° Festival di Roma, che proprio lunedì prossimo annuncerà il suo programma all'Auditorium, gli addetti ai lavori lasciano trapelare un certo pessimismo. Stemperato solo dalla indubbia soddisfazione degli autori, da Francesco Munzi e Saverio Costanzo a Ivano De Matteo, che al Lido hanno trovato un ottimo trampolino
Una precisazione di Francesca Cima
I due registi tra i protagonisti della 71a Mostra che prenderanno parte al dibattito organizzato dai critici alla Casa del Cinema il 25 settembre