“Il mio film è un noir neorealistico”, lo dice sorridendo il 35enne regista romano Francesco Munzi che debutta con Saimir nella sezione Orizzonti. E’ convinto che la vetrina della Mostra del cinema sia importante, vitale per film piccoli come il suo, girato tra novembre e febbraio scorso sul litorale laziale. Il tema affrontato nella sua drammatica opera prima è quello del riscatto possibile di un giovane albanese, immigrato nel nostro paese.
L’esistenza quotidiana di Saimir è caratterizzata dai traffici illegali, dalla faticosa sopravvivenza in periferie degradate, dalle difficoltà di integrazione e soprattutto dalla voglia d’indipendenza e autonomia dal padre padrone.
Munzi sembra aver fatto tesoro delle lezioni dello scomparso regista Valentino Orsini e di uno stage con Gianni Amelio, entrambi frequentati al Centro sperimentale di cinematografia, dove si è diplomato in regia alla fine degli anni ’90. Il film, che non ha ancora un distributore, è stato terminato a fine giugno ed è prodotto con il sostegno MEDIA della Comunità europea e del ministero per i Beni e le attività culturali.
Come hai lavorato sulla sceneggiatura?
Ho scritto una prima versione, per così dire più esterna, diversa da quella finale per il carattere dei personaggi e i dialoghi, ma non nella struttura della storia. Mi mancavano degli elementi, delle sensazioni per raccontare il mondo degli immigrati, in particolare quello degli albanesi in maniera più problematica, senza cadere nello stereotipo della criminalità. Provvidenziale è stata l’interruzione di un anno del mio progetto, causata da un intoppo burocratico riguardo al finanziamento pubblico. Anche se la prima reazione è stata di angoscia.
In quell’anno di attesa ti sei dedicato alla preparazione di un documentario?
Sì, il ritratto di una famiglia rom, raccontando il rapporto tra nuove e vecchie generazioni. Ma il documentario è rimasto sulla carta, il materiale che avevo tra le mani era utile per qualche brutta pubblicità progresso, un’immagine non vera di quella comunità. Ma quello che avevo vissuto nei sei mesi al campo nomade romano si è rivelato fondamentale per intervenire sul buonismo della prima sceneggiatura di Saimir. Tutto è così diventato più confuso e sfumato, ho corretto il manicheismo di fondo: di qui il bene, di là il male.
Fammi un esempio?
Ho calibrato il personaggio del padre affidato a Xhevdet Feri, uno degli attori più famosi in Albania. Edmond vive di traffici illegali con il sogno di un futuro migliore per il figlio. Di qui la difficoltà di Saimir di mettersi contro qualcuno che ti vuole bene, ma che blocca la tua crescita. Così non ci sono solo le emozioni forti, la rabbia di Saimir, ma anche il dramma interiore del padre, che rimane stordito dal comportamento finale del figlio.
Hai modificato anche il finale?
No, è rimasto sempre lo stesso con quel ragazzino che osserva dalla finestra Saimir dopo che ha compiuto il gesto di ribellione. Non sappiamo se miglioreranno o no le sue condizioni di vita. Chissà forse anche quel ragazzino alla finestra si comporterà come Saimir, o forse no. Una cosa è certa ci sono tanti Saimir.
E’ stato difficile far recitare un attore non professionista come il giovane Mishel Manoku, protagonista del film?
Dall’incontro casuale con lui, tornando in Italia, sulla strada che unisce l’aeroporto di Tirana al centro della città, erano trascorse alcune settimane di riflessione. Alla fine, non soddisfatto dei provini fatti nelle scuola di Tirana, ho deciso di scommettere sul 17enne Mishel, senza alcuna garanzia, e ho visto bene perché lui è la forza del film.
Trovo azzeccata la sequenza del furto nella villa, come è nata?
E’ una scena dilatata che fa da spartiacque. Una pausa distensiva prima della corsa verso il finale. Racconta stati d’animo e sentimenti non detti. Quei ragazzi, durante il furto, recuperano la loro infanzia. Davanti a noi è l’epifania dei personaggi.
Quale cinema italiano ti ha formato?
Soprattutto quello del passato, la stagione d’oro che va dal neorealismo alle opere degli anni ’60, quelle di Antonioni e Ferreri.
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