Arriva a Berlino con in tasca la distribuzione della Pablo Commesso viaggiatore. Il film d’esordio di Francesco Dal Bosco, un regista che tra le sue passioni cinematografiche cita i film muti degli anni Venti e degli anni Dieci, “soprattutto quelli tedeschi, Murnau in particolare”, quasi a sottolineare una certa aria di non-vicinanza rispetto al nostro cinema di oggi, la stessa che si respira nel suo film.
Cosa racconta “Commesso viaggiatore?
La tragedia di un uomo che finisce col distruggere la propria famiglia. Storie di questo genere sono molto frequenti, anche sui giornali, e mi sono sempre chiesto da cosa potessero nascere. La risposta è: dall’amore, per quanto strano possa sembrare.
Il richiamo esplicito, evidente, è ad Arthur Miller, che ha fissato un archetipo, e nel titolo ho voluto richiamare la tradizione.
Che stile di regia hai deciso di adottare?
Ho cercato di mostrare il mondo interiore del protagonista. Nel film, il mondo onirico e la vita quotidiana si compenetrano. Anche il senso del tempo, che è una caratteristica della narrazione cinematografica, qui è molto sfuggente.
Volevo raccontare la limitata capacità delle persone di cogliere la realtà nella sua complessità. Ci sono dei lampi, dei piccoli momenti in cui cogliamo quello che sta dietro la superficie delle cose, e poi torniamo nel buio. Ho girato in bianco e nero, con qualche scena di colori, soprattutto paesaggi, legati a una verità interiore del protagonista.
Pensi che il pubblico farà fatica a capire il tuo film, un po’ come la realtà?
Spero di no. Nella vita, è perfettamente normale che, ad esempio, a un dialogo si sovrappongano ricordi, paesaggi, scene diverse, e la mente accetta tutto questo, tranquillamente. Il cinema è molto meno coraggioso della realtà, ma in fondo gli spettatori sono già abituati a pensare in modo non lineare da pubblicità e videoclip. Commesso viaggiatore cercherà il suo pubblico a livello internazionale, come hanno fatto le cinematografie orientali emergenti o i film di Dogma.
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