MILANO – Francesco Costabile, regista di Una femmina, è stato nella rosa dei sei finalisti del Premio Caligari, all’interno della XXXII edizione del Noir in Festival. “CinecittàNews”, media partner della manifestazione, gli ha conferito una Menzione Speciale (leggi articolo).
Francesco, una riflessione sul genere nel cinema, che ha fatto grandi alcune stagioni e che di recente sta tornando a occupare la parte più interessante della produzione italiana. Da autore, cosa permette in più scegliere di abbracciare un genere? Che valore aggiunto dà a una storia? Che dialogo stabilisce con il pubblico?
L’adottare generi e lo sperimentare linguaggi è un valore aggiunto, anche e soprattutto nel cinema d’autore: spesso c’è stata una scissione tra quello autoriale e quello di genere, come se ci fosse una chiusura di categorie. La Storia ci insegna che gli esperimenti più interessanti sono quelli in cui il cinema d’autore abbraccia il genere, perché funziona un po’ come una struttura archetipica, che aiuta noi autori a lavorare su linguaggi che sono universali. Per me il genere è una porta che si apre oltre i confini e fa si che il film diventi universale, appunto.
Nello specifico del suo film – Una femmina – perché ha scelto il genere, su quali paradigmi dello stesso ha puntato e come ha costruito il film in quest’ottica?
La mia scelta è stata di avvicinare il film a stilemi di genere, anche differenti – perché possiamo rintracciare melodramma come sfumature horror -, per poter essere più libero nelle scelte, così avvicinando la storia a un pubblico e a un messaggio universale, transnazionale, transculturale, che riguarda tutte le comunità. Volevo far sì che la storia di Rosa potesse diventare la storia di tutte le donne che combattono per un’emancipazione, per un’autodeterminazione femminile, in una società patriarcale violenta.
Per il suo film, in finale al Premio Caligari, e in generale per la sua idea di cinema di genere, ci sono degli autori o delle opere di riferimento?
Durante la lavorazione e in fase di ripresa i riferimenti artistici non sono mai troppo consapevoli e razionali: tutto quello che è stato il mio backround culturale e cinematografico me lo sono portato dentro; in una seconda fase, in post-produzione, nel vedere il film ho ritrovato vari riferimenti che mi hanno accompagnato negli anni di formazione, e quindi dal cinema di David Lynch a quello di Pasolini, a Fassibinder e all’indipendente americano. L’autore esprime col suo sguardo quella che è stata la sua formazione, che è inevitabile che emerga. Un altro mio riferimento, poi, è sempre stato Luchino Visconti, di cui questa storia, per la sua struttura tragica, ha in sé un’eco, soprattutto nel coro tragico della processione finale. Però, non ho girato con una chiara consapevolezza di citazionismo.
Claudio Caligari, a cui il premio per cui è stato nella rosa dei finalisti è dedicato, che passo pensa abbia impresso, nel nome del genere, nel cinema italiano?
È stata una voce unica, purtroppo spesso inascoltata. Un autore che avrebbe dovuto avere più peso nella cinematografia italiana contemporanea. Ci restano poche opere, ma incisive, che hanno lasciato il segno: sono film con una grandissima urgenza espressiva, che hanno sposato il realismo italiano con il genere. È un autore di riferimento, unico nel nostro panorama, per questo per me è un grande onore essere in finale per un premio che porta il suo nome: è un atto dovuto che il cinema contemporaneo deve a questo grande maestro.
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