Una bellezza che non lascia scampo di Francesca Pirani ha avuto una travagliata gestazione. “Ho scritto la sceneggiatura 8 anni fa e nel ’94 avevo ottenuto dapprima il via libera per accedere al finanziamento pubblico, poi tutto si è fermato con il blocco del Fondo di garanzia, in seguito a un’inchiesta della magistratura. Nel frattempo ho girato, per un progetto di Raidue sulla condizione degli extracomunitari nel nostro paese, L’appartamento, storia dell’incontro tra un giovane egiziano e una profuga di Monstar. Lui possiede ancora la gioia di vivere, lei l’ha dimenticata del tutto. In quella donna bosniaca c’era traccia della depressione che avrei raccontato finalmente per immagini anni dopo”.
Una bellezza che non lascia scampo, costato 800 milioni e girato in 5 settimane, dopo aver partecipato al concorso di Bergamo Film Meeting, esce finalmente nelle sale il 17 maggio, distribuito dalla Filmo.
La regista, dopo aver frequentato recitazione all’Accademia d’arte drammatica, si è diplomata in regia nell’85 al Centro sperimentale di cinematografia e ha lavorato poi come aiuto regista di Marco Bellocchio in La visione del sabba e Il sogno della farfalla.
Si considera un’allieva di Bellocchio?
No, l’esperienza al fianco di Marco è stata soprattutto di carattere tecnico e sull’iter creativo. Mi ha sempre lasciato una grande libertà e ho potuto così misurarmi con la scelta degli attori, la loro preparazione, il montaggio.
L’apprendistato con Bellocchio è parallelo al rapporto con lo psichiatra Massimo Fagioli, collaboratore di alcuni suoi film?
Ho partecipato a una ricerca di analisi collettiva condotta da Fagioli ed è proprio da quella esperienza che ho ricavato il mio rapporto con il racconto per immagini, anche perché non sono mai stata una cinefila per eccellenza. Di Fagioli ho assimilato il suo modo di vedere le immagini che hanno a che fare con l’inconscio, con la vitalità. Immagini inconsce non oniriche, non legate al sogno.
Come è nato Una bellezza che non lascia scampo?
Tutto è iniziato con la lettura di un caso clinico di depressione raccontato da Fagioli sulle pagine della rivista “Il sogno della farfalla”. Spesso la depressione viene affrontata in modo farmacologico, io la interpreto come malattia degli affetti e del pensiero. Quella della protagonista, Tony, è una depressione legata a un’oppressione interna, la musicista ha perso infatti la sua immagine più profonda, anche femminile. Si tratta di una depressione legata all’indifferenza e all’anaffettività manifestate dal suo compagno e Tony nel confronto con questa cultura fredda, lucida e razionale che uccide le emozioni più profonde e istintive, si ritrova sempre più arida.
Da subito ha pensato a un personaggio femminile?
Sì, semmai si è abbassata nel tempo l’età della protagonista. Inizialmente era una donna adulta, ma c’era il rischio che la sua depressione fosse piuttosto il risultato di un bilancio di vita. Invece per una venticinquenne si tratta di una lesione dell’immagine interna e dunque una depressione più universale, meno scontata, ma più diffusa, e difficile da interpretare.
Si è ispirata ad altri film?
Ho pensato a Così bella così dolce di Robert Bresson, simile per la tematica affrontata: un uomo “perfetto” è convinto di amare la sua compagna e invece spinge la donna al suicidio. Bresson è un autore che amo, ma la mia simpatia è rivolta anche a Michelangelo Antonioni e al sogno e alla fantasia di Andrei Tarkovskij. Ingmar Bergman invece lo trovo un po’ distante, troppo faticoso e carico di simboli. Non a caso ho cercato di evitare nel mio film l’astrazione, l’eccesso di simbolismo, preferendo la stilizzazione. Il racconto è ellittico, comincia in maniera realistica e abbandona questo stile man mano che il personaggio va verso gli affetti. Ho cercato un linguaggio che non fosse frammentato in diversi piani, ma parlasse di conscio e inconscio, fondendo sensazioni, risonanze e sogni.
Che cosa ha chiesto all’autore della colonna musicale e al direttore della fotografia?
A Tony Carnevale una musica non di commento ma che fosse storia essa stessa. A Fabio Zamarion, che è stato operatore di Vittorio Storaro, un’immagine curata, non generica, con una ricerca sul colore e sulla focale. La depressione è anche un modo di vedere il mondo, così dalle immagini fredde iniziali si procede verso lo sfumato, dal definito all’indefinito.
Come mai la scelta di un’attrice protagonista olandese?
Le attrici italiane si sono spaventate, l’hanno ritenuto un film non facile per la sua recitazione dai tempi dilatati e stilizzati. Del resto cercavo un’adesione totale al progetto. Thekla è riuscita a cogliere il “quid” del personaggio e della vicenda e a lasciarsi andare generosamente.
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