C’è molta Torino – quella della Fiat, delle lotte operaie, dell’autunno caldo – nel documentario che Francesca Comencini ha presentato nel “Panorama italiano” del Torino Film Festival, la stessa Torino che fa da sfondo alle vicende di SignorinaEffe di Wilma Labate, storie personali che si intrecciano con eventi come il durissimo sciopero di 35 giorni degli operai Fiat nel 1980.
Ma l’autrice di Mi piace lavorare stavolta, con In fabbrica, si affida alla memoria e attinge allo sterminato materiale delle Teche Rai per un’opera di montaggio che ripercorre la storia del paese attraverso i suoi lavoratori. Lo fa puntando su tante testimonianze dirette, ma anche su brani di cineasti come Blasetti, Gregoretti e Luigi Comencini (a cui il documentario è dedicato), dal cui Bambini e noi sono tratti alcuni passaggi. Nei circa 80 minuti di documentario scorre l’Italia del boom economico e dell’immigrazione interna di massa (con il razzismo, nemmeno tanto sottile, che questa aveva scatenato). C’è l’Italia dei bambini che lavorano al nero per portare i soldi alla famiglia, e delle fabbriche che non concepivano di dover assicurare tutela, e tantomeno rispetto, ai loro lavoratori. E poi ci sono la consapevolezza, le lotte sindacali, le grandi contestazioni e via via fino all’industria di oggi, completamente trasformata, raccontata attraverso interviste agli operai della Brembo, una fabbrica nei pressi di Bergamo (le uniche girate ex-novo per il documentario). Prodotto da Rai Cinema e Rai Teche, In fabbrica sarà presentato oggi in anteprima all’Auditorium Conciliazione in una serata promossa da Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Rai Radiotelevisione Italiana e Museo Nazionale del Cinema di Torino.
Prossimamente sarà trasmesso su RaiTre, e poi uscirà in Dvd.
Perché ha scelto di raccontare l’identità operaia con un documentario di montaggio?
Sono stata sollecitata da Rai Cinema e Teche Rai a realizzare un documentario con materiali di repertorio e, potendo scegliere, ho voluto parlare del tema del lavoro, che è qualcosa che amo raccontare e di cui ho parlato anche in altri miei film. E’ una grande storia, che racconta molto del paese.
Quale punto di vista le premeva far emergere?
Volevo mettere in primo piano il racconto, e narrare la pazzesca trasformazione che ha subìto il nostro paese, rispettandone la cronologia. Mi interessava raccontare questo mondo dal punto di vista umano, attraverso le facce, i volti e le parole degli operai, in un racconto interno fluido in cui far funzionare le immagini di repertorio, tra loro, come in campo e controcampo. Quindi ho privilegiato le interviste e le testimonianze dirette, focalizzandomi sulle persone piuttosto che sul movimento.
E’ per questo motivo che, pur soffermandosi molto sul periodo degli anni ’60 e ’70, non ha toccato il tema del terrorismo se non marginalmente?
Sì, è stata una scelta di racconto, ma anche una scelta politica. Proprio perché trovo molto politico raccontare il rapporto degli operai con il loro mestiere, ho voluto esplorare meglio questo aspetto e sottolineare l’etica e l’orgoglio del lavoro. E’ così che, attraverso il confronto tra gli operai entusiasti del periodo del boom economico e gli immigrati africani delle fabbriche moderne (che si realizzano perché “hanno accettato di farlo, questo lavoro, e ora vogliono farlo bene”), ci si rende conto che tutto è cambiato ma nulla è cambiato.
Lo sguardo sul lavoro operaio degli anni ’80 e ’90 è affidato solo a una breve panoramica finale, perché?
Un po’ perché da allora si parla talmente poco di operai che sembra che non ce ne siano più. Un po’ perché è molto cambiato il racconto televisivo del nostro paese. Avrei voluto soffermarmi di più su quel periodo, ma non avevo abbastanza materiale: a quel punto bisognava cercare tra i servizi dei Tg, piuttosto che sulle belle inchieste degli anni ’60 e ’70.
Adesso ha voglia di continuare a esplorare altri aspetti del mondo del lavoro?
Sì. Tempo fa ho girato un piccolo documentario di 5 minuti, Anna abita a Marghera, su una ragazza che viveva a Porto Marghera. Vorrei ripartire da quel lavoro per un film di finzione sulla Porto Marghera di oggi: ci sono tanti ragazzi, italiani e stranieri, che tentano di viverci e voglio capire cosa è rimasto di un luogo che ha ospitato una delle vicende più tragiche dell’industria del nostro paese, affrontando allo stesso tempo la questione ambientalista.
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