VENEZIA – Lo spazio bianco è il tempo che precede la vera nascita di una bimba prematura, ma è anche il vuoto che la madre fa attorno a sé per starle accanto ed è la pausa della scrittura che permette di andare avanti con un nuovo racconto, senza usare il futuro, senza strappi col presente. Lo spazio bianco è il bel film di Francesca Comencini in concorso a Venezia 66, secondo italiano dopo il sontuoso Baarìa. Tutt’altro genere di cinema, femminile e intimo, visionario e musicale che parla di maternità come di qualcosa di misterioso, che si tramanda da una donna all’altra e che ha a che fare col simbolico oltre che con la biologia. Perché Maria, la protagonista di questa storia, è una donna molto contemporanea, che fa tutto da sola e “non sa aspettare”. Per Valeria Parrella, l’autrice del romanzo omonimo (Einaudi, pp. 112, € 14,80) ecco “un film che non rispetta il libro, per fortuna, e che nasce dall’empatia tra me e Francesca, dalla voglia nuda di capirci”. Per Margherita Buy, interprete di un assolo contrappuntato da tanti personaggi, in una Napoli inedita vista dai tetti e dalla funicolare, il film è stata “la cosa più bella dell’ultimo anno, un momento di crescita, in cui un personaggio forte e fragile scopre un desiderio di maternità inconsapevole e incosciente, sembra disperata e sola ma trova la forza di affrontare questa seconda gestazione nel lavoro che fa, un lavoro importante com’è l’insegnamento a persone adulte”.
In sala dal 16 ottobre con 01 Distribution, il film è prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema con il contributo del MiBAC, e interpretato da Gaetano Bruno, Giovanni Ludeno, Antonia Truppo, Guido Caprino, Salvatore Cantalupo e Maria Paiato. CinecittàNews ne ha parlato con Francesca Comencini.
È la prima volta in concorso a Venezia: cosa cambia?
Cambia tutto. A Venezia c’ero già stata nell’85 con Pianoforte, che vinse il Premio De Sica come miglior film d’esordio, ma il concorso è un’altra cosa, è un punto d’arrivo.
Quest’anno ci sono quattro autrici in competizione a Venezia, oltre a te, Jessica Hausner, Shirin Neshat e Claire Denis. Sono ancora poche, come lamenta Jane Campion, che a Cannes denunciava la difficoltà per le donne di fare questo mestiere?
So solo che in Italia ci sono molte brave registe, penso a mia sorella Cristina, a Francesca Archibugi, Anna Negri e Alina Marazzi. E che Lo spazio bianco è un film con uno sguardo femminile, scritto da due donne, Federica Pontremoli e me, tratto dal romanzo di una donna, prodotto da Laura Paolucci e Caterina D’Amico, ruota attorno a un personaggio femminile che non si definisce in relazione a nessun maschio. E contemporaneamente però è il primo film prodotto dalla Fandango in vent’anni che sia girato da una regista, anche se è arrivato insieme a Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli. E’ vero che per un donna è difficile fare tutto, non solo il cinema. Si rischia sempre di fare passi indietro, malgrado gli spazi che abbiamo conquistato continuando a mandare avanti il mondo.
Questo ci porta a uno dei temi del film, donne come Maria o come la vicina di casa magistrato Maria Paiato, che hanno un’individualità forte e una responsabilità nella società e magari vengono accusate per questo di non essere delle buone madri.
Dobbiamo purtroppo ancora fare i conti con una visione della donna retriva e fuori dalla storia. È un moloch difficile da abbattere. Mia figlia ha 17 anni e non vuole neppure sentir parlare delle veline, come pure le sue amiche. Queste ragazze hanno un’idea di bellezza diversa, studiano per diventare psicologhe o magistrate, hanno un forte bisogno di etica. Eppure in televisione ogni minuto, in ogni inquadratura, viene detto che la donna è nulla, che è una merce.
Il personaggio di Maria ha un’evoluzione straordinaria. Attraverso questa esperienza, riesce ad aprirsi al mondo e non solo alla maternità.
Maria è una donna di 42 anni che si sente ragazzina e contemporaneamente vecchia, che ha sempre fatto le cose da sola, che non è particolarmente predisposta a essere madre e che è anche un po’ respingente, almeno all’inizio. Ma il materno fa parte delle donne al di là del dato biologico e l’incontro con le altre la cambia. La rivalità tra le donne è un mito maschile, io sento piuttosto la sorellanza.
Questa sorellanza la mostri molto bene nelle scene del reparto prematuri, dove si crea una vera rete di solidarietà tra donne di diversa età ed estrazione, che vivono accanto a un’incubatrice. Ma anche nel rapporto che si crea con la vicina di casa magistrato.
Le varie donne che Maria incontra sono specchi di lei stessa: Mina è la giovane madre di un altro bambino prematuro, la magistrata rimanda alla scelta che ci troviamo continuamente di fronte, se salire sul treno per andare nel mondo o restare con i nostri figli. È un personaggio che mi è venuto in mente dopo aver incontrato Ilda Boccassini, sono donne che partecipano al processo civile del paese eppure sono madri, ma non possono cedere né mostrarsi fragili.
Qualcuno potrebbe dire, con una visione un po’ superficiale delle cose, che questo racconto sancisce l’inutilità dei maschi.
E’ una cosa frequente che una donna metta al mondo da sola, senza aiuti, il proprio figlio ma non è questo che voglio mostrare. Semmai nel film c’è la proposta di un nuovo patto di amicizia tra i due sessi. L’amicizia comporta regole, rispetto reciproco e desiderio di conoscersi. E forse bisogna ritornare a questo patto di amicizia tra uomini e donne.
Pensi anche tu che il cinema italiano sia una specie in via d’estinzione?
Il cinema italiano è vivo e riesce a fare film come questo, artigianali, con pochi mezzi – 3 mln € col finanziamento pubblico – e un produttore dalla volontà forte come Domenico Procacci. Il cinema, e non solo quello italiano, è un’industria ma è anche fatto di creazioni più piccole e indipendenti.
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