Sarà una Cannes di padri e di figli, questa Croisette 2001. Francesca Comencini dà il suo contributo con Le parole di mio padre, il film liberamente tratto dalla Coscienza di Zeno di Italo Svevo in programma a Un Certain Regard. Saranno lei e Francesca Archibugi, dunque, le signore del cinema italiano al festival.
Cinque anni di gestazione (“vivevo a Parigi e ho riletto i grandi scrittori della nostra lingua: una rivelazione”), una interpretazione assolutamente emotiva e soggettiva del tema (l’ingresso nel mondo adulto, il rapporto con il padre, lo iato tra essere e fare…), un gran bel cast, da Chiara Mastroianni a Mimmo Calopresti (per ironia anche giurato a Cannes) e Toni Bertorelli.
Immagino sia molto contenta della convocazione a Cannes: se lo aspettava?
Lo speravo, lo sognavo, ma aspettarmelo proprio no. Sono felicissima. Mi sembra uno straordinario traguardo per un film di piccolo budget, fortissimamente voluto da me e, soprattutto, dalla produttrice Donatella Botti. Se non ci fosse stata lei, la sua costanza, la testardaggine femminile che ha messo nel progetto, avrei desistito. Abbiamo vissuto mesi di incertezza e avuto parecchie difficoltà a finanziarlo.
Cosa vuol dire “liberamente tratto” dal romanzo di Svevo?
Ho lavorato solo su due capitoli del libro, “La morte di mio padre” e “Storia del mio matrimonio”. Mi interessava, di Zeno, la sua inadeguatezza, quel suo essere eternamente figlio, mai adulto, un personaggio che nonostante la cultura e la sensibilità si sente sempre ai margini della vita, continuamente a chiedersi “cosa ci faccio io nel mondo?”, una domanda molto attuale, mi sembra.
Anche lei, come Svevo, ci ha messo dell’autobiografia?
Non direi. La mia vita è molto piena, ho tre figli, lavoro. L’aspetto di lettura più personale è nel rapporto emotivo tra Zeno e il padre. In questo senso il romanzo, oltre che estremamente contemporaneo, è addirittura profetico nel raccontare di una paternità in crisi, insieme troppo presente e mai abbastanza.
Un film-omaggio a suo padre?
Tutto quello che faccio è un omaggio a mio padre. Nonostante mi sia accanita a cercare un percorso lontano dal suo, a creare grande distanza tra noi, abbiamo un rapporto molto profondo e segreto.
Il film è girato ai nostri giorni e a Roma, non a Trieste: come mai?
Ho fatto dei sopralluoghi e Trieste ma nella radice quadrata del mio intento, che non era quello di un adattamento, filmare una città che non conosco mi è sembrata una trappola, sarebbe diventata solo una cornice. Ho girato in una Roma molto riconoscibile e insieme fuori dal tempo, molto notturna, per un film che direi impressionista. E poi volevo molto tornare nella mia città dopo la vita parigina.
Come ha scovato il suo Zeno, ovvero Fabrizio Rongione, il coprotagonista maschile di “Rosetta”?
L’avevo molto apprezzato in quel film e ho scoperto poi che è nato in Belgio da genitori italiani e parla italiano. D’altronde Zeno viene da “xeno”, straniero.
Con quale spirito va a Cannes?
Sono una convinta che il cinema abbia il potere di cambiarci la vita. Ricordo ancora una battuta di Sussurri e grida che vidi da bambina… Spero che almeno una scena, un momento, tocchi le persone con la stessa intensità, la stessa tesa emozione che ci abbiamo messo noi tutti a realizzarlo. Se poi riusciamo anche a venderlo, tanto meglio.
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