“Cannes è una specie di terno al lotto. L’abbiamo tutti un po’ nel cuore, perché rappresenta un vera apertura verso il resto del mondo”, questo afferma Francesca Archibugi a proposito della sua partecipazione all’edizione 2001 del festival.
I ritardi dovuti alla complicata produzione del suo Domani (che ci ha raccontato nella precedente intervista) sono stati ripagati dall’immediato interesse suscitato dalla pellicola nei selezionatori del Festival.
“La caratteristica di Gilles Jacob, sin dai tempi dei Cahiers du Cinéma, è quella di salvaguardare gli autori”, prosegue Archibugi. “Sono stata già a Cannes con Il grande cocomero e da allora il direttore del Festival ha sempre nutrito un certo interesse nei confronti del mio cinema”.
A parte l’autorialità del prodotto, cosa ha colpito i selezionatori in una storia tanto drammatica, quanto italiana?
Capita spesso ai festival. Godard diceva che “il cinema è una finestra sul mondo”. E’ la stessa curiosità che muove verso altre cinematografie come, per esempio, quella iraniana o asiatica. Anche se è vero che all’estero preferiscono film italiani in costume o che raccontano di un paese che non c’è più. Invece Domani è storia di oggi, pur se disgraziata e marginale.
Cosa li ha convinti allora del film?
Uno sforzo narrativo che rende giustizia ai destini delle persone. Senza scadere in una lettura sociale che, spesso, è fuorviante.
Nella sezione ‘’Un Certain Regard’’ sei in (buona) compagnia con Francesca Comencini. Vi siete sentite?
Ancora no. Anche perché non ci conosciamo. Ci siamo incrociate in occasione del suo esordio con Pianoforte (del 1984, ndr) che avevo molto apprezzato. Lei poi si è trasferita a Parigi, dove ha vissuto per molto tempo. Il fatto che sia tornata è un buon segno. Il cinema italiano ha bisogno di talenti come lei.
Un tuo commento sulla presenza italiana a Cannes 2001.
Moretti è Moretti. E’ il nostro campione. La stanza del figlio è un film molto bello, che esprime la sua vena migliore, più narrativa e drammatica, più o meno la stessa di Bianca e La messa è finita. Olmi è un vero maestro. A cui sono particolarmente legata. Anche perché, nel 1985, appena uscita dal Centro sperimentale, ho avuto la fortuna di frequentare la sua “scuola” Ipotesi Cinema. Ha prodotto un mio cortometraggio dal titolo Un sogno truffato e si è mostrato sempre molto attento alla formazione di noi allievi. A lui devo l’amore e la cura artigianale del fare cinema, che non si esaurisce semplicemente dietro la macchina da presa, ma sfocia nella supervisione di tutte le forze creative che interagiscono alla buona riuscita del prodotto.
Sei reduce dal viaggio in Giappone, in occasione della rassegna dedicata al cinema italiano, organizzata dall’Agenzia Italia cinema. Come ti ha accolto il pubblico nipponico?
E’ stato il mio secondo viaggio in Giappone. Il primo è stato in occasione dell’uscita de Il grande cocomero. Come allora, mi sono trovata di fronte un pubblico sofisticato, intelligente e colto, molto incuriosito dal nostro cinema. La rassegna che, grazie al jet lag, mi ha dato personalmente anche il piacere di parlare fino alle 5 di mattina con i colleghi Giordana, Martone e Winspeare, spero sia la base di nuovi contatti commerciali con un mercato disponibile e fertile. A mio parere fino a ieri trascurato e più che pronto ad accogliere l’offerta.
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