CANNES – Filippo Timi è Giovanni Guasti, papà di Pietro, il bambino, poi uomo (interpretato da Luca Marinelli), de Le otto montagne (leggi l’articolo), film in Concorso, diretto da Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen: nel cast, anche Alessandro Borghi e Elena Lietti.
Filippo, quest’anno è stato padre ne Il filo nascosto e nel film qui in Selezione Ufficiale. L’attore deve saper recitare qualsiasi ruolo, ma quella del genitore è figura che potrebbe portare con sé sfumature che s’annodano col vissuto personale: come si costruisce il profilo di un padre?
Secondo me, i genitori sono figli che hanno avuto altri figli, quindi inadatti a crescerli perché è una cosa improvvisa. E infatti non è che mi sia dovuto ‘preparare’, perché – come quando ti nasce un figlio – tu non puoi preparati: in tal senso, può esserci un’analogia con la creazione di un ruolo, è come se fosse un figlio. Nei nove mesi prima che nasca ti immagini come sarà, come sarà il primo giorno di scuola, come sarà da grande, e come sarà da vecchio: però, poi, ‘quando parte il primo ciak’ è tutto nuovo, devi fare i conti con i limiti tuoi, con i limiti del mondo, con le circostanze.
E influisce l’esperienza reale di figlio, per interpretare un padre? Penso alla trasmissione delle passioni, come dei pesi emotivi, ma anche all’evoluzione del singolo, come individuo al di là del ruolo famigliare.
Ho 48 anni, l’esatto inverso di mio papà, che ne ha 84: è scattato da qualche parte, come cosa normale, sentirmi papà, qualcosa dettata forse anche un po’ dal tempo… Fare un lavoro artistico è meraviglioso perché ti dona un po’ la vita: e cos’è per me la vita? È avere energia per stupirsi ancora. Non credo che, quando uno smette di stupirsi, sia perché non succedano più i piccoli miracoli quotidiani, perché quelli ci sono, ma sei tu ad essere stanco o concentrato su altro, e non ce la fai a coglierli. Invece, fare un mestiere creativo, o semplicemente fare un lavoro che si ama, ti mantiene lo stupore necessario; sono d’accordo con Baudelaire, la noia è il male che fagocita tutto. E poi, è sempre un valore apprezzare quello che accade, come l’essere qui a Cannes, è qualcosa di cui sono molto consapevole.
Debutta tra pochi giorni con uno spettacolo su Pasolini, a 100 anni dalla nascita: come ha costruito il progetto, il suo ruolo, il senso di paternità?
S’intitola Scopate sentimentali, titolo molto pasoliniano, e sì, ha in sé un fortissimo senso di paternità. È un concerto rock, perché sono in scena con Rodrigio D’Erasmo, il violinista degli Afterhours, e un altro musicista, Mario Conte: io ho scritto il testo. Mi vergogno, e lo dico con pudore, seppur con falsa modestia – perché sì, la modestia è sempre falsa! – ma io sono istintivamente incazzato con Pasolini, perché lo sento come un papà intellettuale, un papà storico, che mi ha tradito, per il semplice fatto che sia morto. È scandaloso che anche Pasolini muoia! Non mi sento orfano, no, peggio: mi sento incazzato. Ovviamente non posso incazzarmi fino in fondo, perché cosa posso pretendere io? Però, Pasolini mi smuove comunque il confronto con la figura del padre. E lo spettacolo nasce dalla voglia di capovolgere l’immagine testamentaria finale di Pasolini, cioè del ‘frocio morto ammazzato’: quella è solo una delle realtà, ma accanto a cui c’è, per esempio, anche Orfeo attaccato dalle erinni. Quando ero più giovane, un giorno domandai a un regista: ‘ma Orfeo è esistito, oppure no?’. E lui mi disse: ‘chissenefrega’. Lì per lì non capii, ma aveva anche ragione: è più importante il Mito, quello che rappresenta. E dunque, lo spettacolo nasce un po’ per rigirare quell’ultima immagine connessa a Pasolini: se penso alla sua fine, io abbasso lo sguardo, come se fosse davvero scandalosa, ma non scandalosa per il sesso, ma perché c’è davvero un pochino d’ingiustizia se anche un poeta così alto deve subire lo scandalo della morte. È doloroso accettarlo. Poi, però, può servire per assumersi responsabilità: nello spettacolo arrivo a dire ‘non l’abbiamo ucciso noi Pasolini, ma di sicuro è stato un uomo, e noi ne porteremo il peso sempre’. Quindi, possiamo essere incazzati perché non siamo riusciti a difenderlo, idealmente. E dunque sì, Pasolini c’entra molto con la figura del padre. La prova aperta dello spettacolo sarà a Roma, il 26 maggio all’ ‘Angelo Mai’, poi il 28 ci sarà la prima assoluta a Mantova a Palazzo Te, invitati da Vasco Brondi per la rassegna monografica, e il 29 a Milano ai Bagni Misteriosi. Per ora, queste tre date.
Sempre sul tema del padre, e ritornando a Le otto montagne, il suo Giovanni ha una dedizione stacanovista al lavoro, sinonimo anche di rinuncia… Qual è il peso che lei dà al lavoro, quello che reputa sia giusto per le passioni, e fin dove crede sia equilibrato rinunciare? E, Giovanni Guasti rinuncia davvero a Pietro?
Quel padre lì non è che rinunci al figlio: anche se avesse avuto più tempo a disposizione, era quello il suo modo per dimostrargli – e dimostrare a se stesso – di tenere a lui. Io credo che se vuoi passare a un figlio il coraggio, tu genitore devi essere coraggioso, non devi solo dirgli: ‘devi essere coraggioso’; le parole, spessissimo, sono portatrici di buone intenzioni, che sono già qualcosa di bellissimo, intendiamoci, però poter osservare un genitore coraggioso è un’altra… cosa. Infatti, capisco che puoi trovar coraggio per difendere un figlio: io stesso, per esempio, sono più coraggioso quando entro in scena, ma non per me, per gli altri colleghi, perché non posso mollare proprio io, ed è un po’ un istinto paterno. Rispetto al tema del peso – lavoro e resto delle cose – per me è 100% mestiere, sono completamente sproporzionato, devo proprio forzarmi anche solo per cucinarmi qualcosa: è una cosa parecchio difficile, proprio un grande traguardo, anche perché un pochino scappo dalla vita, aspetto che ha in sé qualcosa di bello, però. È come abitare in una casa un po’ vuota, per cui, al posto di fare tutto un trasloco, per cui impazzirei, piano piano ci metto un elemento d’arredo, e se non mi piace cambio la disposizione, un po’ per volersi più bene.
Le otto montagne è anche sinonimo di ‘luogo’: uno spazio specifico può influire sullo spirito o sulla spiritualità di un personaggio e del suo interprete? Soprattutto la montagna, laddove metafora di ascesa spirituale, del ritrovare se stessi.
Se ti devi confrontare col mare aperto, il luogo diventa parte espressiva, intima, ovviamente. Così, una montagna è estrema, quanto appunto il mare aperto. È interessante perché questi luoghi sono presenti a loro stessi e tu non puoi prescinderne: una grande città, come New York, è un luogo con cui ovviamente devi fare i conti, però… è stata costruita dall’uomo, quindi, bene o male, tu hai una percezione di misura sulla costruzione. Mentre, in un luogo come la montagna, vince la montagna.
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