Un figlio, due madri, gli anni ’80 e oggi. Lauro, Margherita, Giacinta, nomi propri che in comune hanno una radice che li concilia con la natura, la Madre Terra, e infatti di madri si tratta: un racconto delicato, fragile e forte al contempo, portatore di dubbi, sollecitatore di domande, abile nel non lasciare indifferenti le corde dell’emotività e le riflessioni sull’etica. Il figlio sospeso, scritto e diretto da Egidio Termine, regista palermitano, che nella sua Sicilia – a Capo Zaffarano, un promontorio sul Tirreno – ambienta parte della storia, è stato presentato alla Camera dei Deputati, alla presenza dell’on. Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la Vita italiano, nonché co-promotore della proposta di legge che andrebbe a disporre in materia di maternità surrogata, indicando la stessa come reato.
Nel volto antico e nella mimica d’attore impacciata, ancorché poetica, di Paolo Briguglia (Lauro) si mette in fila la storia di Giacinta (Aglaia Mora), una bambina adottata negli anni ’50. Cresciuta e sposata affida il suo desiderio materno, per impossibilità di portare a termine una gravidanza, a Margherita (Gioia Spaziani), pittrice ecologica, per questo dedita alle piante, ai fiori – da qui il nome Lauro del protagonista – e vedova di mafia – s’intuisce – che per affetto, e un po’ per bisogno, accorda di “farsi casa” per il figlio dell’amica. Lauro, rimasto orfano di padre (Briguglia interpreta il doppio ruolo) così piccolo da non ricordarne nemmeno il volto, alla ricerca di sue tracce, si trova tra le mani una vecchia scatola di caramelle, “scrigno” della verità: un pezzetto di cartoncino chiuso su se stesso, all’interno di cui un disegno, una firma puntata, M.S., e un titolo, “Ritratto di una madre”, gli insinuano il dubbio di avere un fratello, che decide di cercare. Nella sua ricerca, tra numerosi flashback che raccontano il passato, riportano al presente e mettono in scena il ricordo – tre momenti che anche fotograficamente il dop Giuseppe Scifoni sceglie con tonalità, grane e dinamismi differenti a sottolineare passi diversi del racconto – Lauro incontra chi, con un album da disegno, gli mette di nuovo tra le mani un altro pezzo della sua storia, e così questo trentenne timido, che fa il fotografo perché i compagni del liceo gli avevano regalato ironicamente una macchina fotografica dicendogli che così ci si poteva nascondere dietro, che beve solo bevande con le bollicine, indossa sempre un paio di guanti a coprire il dorso delle mani e non ha mai preso un aereo, compone la sua identità. Il personaggio interpretato da Briguglia, come la Margherita di Gioia Spaziani, sono centrati, assorbiti dal loro profilo narrativo, intrisi di forte umanità: non c’è rabbia, piuttosto malinconia, non c’è ossessione, piuttosto desiderio di ristabilire l’ordine delle cose, senza però, nemmeno per un istante, accusare o rinnegare l’altra madre, Giacinta.
Il figlio sospeso fornisce un ulteriore possibile spunto per il grande dibattito sulla maternità surrogata, sul cosiddetto “utero in affitto”, seppur non si possa inserire completamente nel confronto più recente, per la collocazione temporale – Lauro nasce poco più di trent’anni fa, quando il tema era quasi sconosciuto – e per come viene narrato: le dinamiche affettive, il rapporto personale tra le madri, la modalità familiare di “vendita” del bambino, e diverse altre sfumature della situazione, sono differenti dalle dinamiche conosciute oggi. Il film non fa cronaca, non documenta, dunque non ha la pretesa di essere specchio della realtà, ma offre di certo uno stimolo, proprio per il profilo fortemente emotivo, in cui la doppia maternità si mostra in tutte le proprie complessità e compromissioni affettive, molto prossime alla natura umana e, per questo, distanti dall’appalto commerciale di un utero.
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