Un film profondamente autobiografico se anche il regista, il 38enne messicano Fernando Eimbcke, ha avuto come Juan, il giovane protagonista di Sul lago Tahoe, un incidente con la macchina di famiglia subito dopo la morte del padre. “Il film è il tentativo di comprendere le ragioni che mi hanno spinto a commettere un tale atto, un assurdo e profondo atto umano”, dice il regista che con la sua opera seconda è stato premiato quest’anno due volte a Berlino (Fipresci e il riconoscimento Alfred Bauer), dopo aver ottenuto al Sundance Festival ’06 il premio NHK per il miglior progetto, e ora partecipa fuori concorso al TFF.
Quella di Sul lago Tahoe è una storia semplice ed essenziale, tutta svolta nell’arco di una giornata che ruota intorno alla fuga del giovane Juan da casa e dai familiari schiacciati dal dolore per la scomparsa del padre. Il ragazzo, inerme di fronte al lutto, si riconcilierà con la vita, imparando a conoscere non solo la rabbia ma anche le lacrime. Tutto grazie agli incontri casuali di un giorno che si era annunciato senza speranza: alcuni abitanti un po’ stravaganti di un’anonima cittadina fatta di strade sterrate e sconnesse, qualche officina meccanica e villette anonime. Il film di Eimbcke non ha nulla di drammatico, anzi è denso di ironia e sorriso. Colpisce per lo stile minimalista: inquadrature rigorosamente fisse con il protagonista che entra e esce di scena mentre la macchina da presa pare in attesa di catturare altro del campo visivo. E ancora suono in presa diretta, mentre l’utilizzo dei fotogrammi neri nel montaggio non solo tiene a distanza lo spettatore da un possibile coinvolgimento, ma è soprattutto una risorsa narrativa. Come il commento sonoro, su schermo nero, del film di Bruce Lee che Juan vede insieme al giovane meccanico fan dell’eroe del kung fu. Sul lago Tahoe arriverà nelle sale a inizio 2009 con Archibald Film.
La scrittura del film, per lei che aveva appena perso il padre, non ha forse rappresentato un percorso terapeutico?
Sì, è servita ad elaborare il lutto di una perdita così importante. All’inizio però non avevo alcuna intenzione di affrontare l’argomento della morte, forte era il rifiuto di affrontare questa realtà. Così avevo pensato a un altro script che aveva sempre come protagonista un ragazzo, ossessionato dalla ricerca di un disco andato smarrito durante una festa. E’ stata la co-sceneggiatrice Paula Markovitch, che anche lei aveva vissuto da poco la perdita del padre, a convincermi di raccontare questa condizione personale.
La struttura narrativa richiama le strisce dei fumetti?
Sì c’è questa contiguità con le strip nella costruzione delle diverse scene, come nella scelta dei colori. Mi è sempre piaciuto il fumetto ironico e comico, penso a Charlie Brown, a Mafalda, al disegnatore Chris Ware.
L’intero suo lavoro è girato con la camera fissa, tranne due carrellate con il protagonista alla ricerca del pezzo indispensabile per la sua auto in panne. Come mai?
Si tratta di errori, ma non intenzionali. La cinepresa sempre ferma e immobile era all’inizio la cifra stilistica della mia pellicola. Ma il direttore della fotografia ha suggerito, durante le riprese, di inserire le due carrellate per evidenziare l’evoluzione di Juan, che in quel momento abbandona una posizione di stallo e attesa. Sembrava una buona idea, ma a prodotto finito non mi è piaciuta più perché rende meno organico il tessuto narrativo, comunque ho lasciato l’errore. In verità mi è mancata la capacità di imporre quella convinzione registica che cita Wim Wenders quando parla del metodo di lavoro del regista Ozu.
Il silenzio è un elemento fondamentale di “Sul lago Tahoe”?
Lo vivo come un’ossessione personale. Sono convinto che le cose possano essere meglio comunicate attraverso i gesti e i comportamenti. All’inizio la sceneggiatura era fitta di monologhi, ma alla fine non comunicavano. Ho cominciato a cancellare alcuni frasi, poi interi parti e alla fine il silenzio ha preso il sopravvento sulle troppe parole.
Come ha scelto la location?
Non è stata una scelta immediata, non sapevo dove svolgere la storia. Immaginavo però un luogo arido, una città industriale che sottolineasse quel vuoto interiore dopo un lutto. Vedevo i personaggi piccoli, sovrastati da pareti alte e fatiscenti che aumentavano il senso di solitudine. Ma il direttore della fotografia mi suggerì di girare in una cittadina tropicale. “Che c’entra con la morte?”, gli chiesi per nulla convinto della sua proposta. E lui: “Ma il tuo film non parla solo di morte, ma anche della vita che torna e rinasce”.
Così è arrivato a Puerto Progresso, nello Yucatan, mostrata come un luogo provvisorio e senza identità, quasi fuori dal tempo.
E’ una cittadina fantasma di mare, popolata nei mesi estivi dagli abitanti di Merida che vi trascorrono le vacanze, e disabitata nel resto dell’anno. Ma accanto ai suoi muri battuti dal vento e corrosi dalla salsedine, che comunicano un senso di desolazione, c’è tuttavia una vegetazione rigogliosa. Un location ideale che non ha richiesto alcuna modifica scenografica, quel che si vede nel film è identico alla realtà di Puerto Progresso.
Il titolo rimanda a un dato autobiografico?
No, al posto di questa località turistica poteva essercene un’altra. Non conta il nome, quanto quel che rappresenta. Cioè l’accettazione del dolore e il suo superamento nel momento in cui il piccolo fratello di Juan immagina di esserci stato a Lake Tahoe.
Non le sembra che il suo cinema sia prossimo a quello di Jim Jarmusch?
Lo considero un maestro, mi ha molto influenzato.
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