Federico Rizzo, giovane regista digitale indipendente e molto prolifico, è passato in concorso pochi giorni fa al Bergamo Film Meeting con la sua ultima opera, Lievi crepe sul muro di cinta, sesto film del “Decalogo delle giovani vittime”, iniziato nel 1999 con Storia malata. Ormai diventato un simbolo della giovane autorialità autoprodotta e autodistribuita (soprattutto nella zona di Milano e in Emilia Romagna), Rizzo ha trovato nella tecnologia di ripresa digitale il mezzo ideale – per accessibilità economica e qualità estetica – per realizzare le sue “urgenze” espressive fuori dall’omologato, come lo definisce lui, circuito ufficiale del cinema.
Di che parla “Lievi crepe sul muro di cinta”?
Il film racconta la storia di Agostino, giovane poeta di grande talento che rifiuta qualsiasi compromesso e, forse proprio per questo, non riesce a vedere pubblicate le sue opere ed è costretto a lavorare come bidello. E’ una storia contro l’omologazione della cultura ambientata nella Milano ‘underground’, non quella ricca e patinata della comunicazione. Il mio è un film di protesta, un po’ polemico nei confronti del cinema italiano ‘ufficiale’ che vediamo nelle sale, che è l’unico che riesce a essere finanziato ma che rimane sempre uguale a se stesso. Gli autori riconosciuti oggi non rischiano più, si sono adagiati sugli allori, e mi sembra che in questo modo si trattino gli spettatori da stupidi. I miei film, che ho sempre autoprodotto grazie al digitale e autodistribuito in circuiti alternativi, sono stati visti soltanto nelle zone di Milano e di Bologna, ma hanno avuto un grande successo di pubblico e di critica, con tanti premi e partecipazioni ai festival. Nonostante questo ancora non riesco ad avere una distribuzione ufficiale.
La scelta del digitale è dettata unicamente dal basso budget o è anche un preciso orientamento espressivo?
Nel mio caso girare in digitale è una scelta dettata in primo luogo dall’economicità del mezzo; detto questo trovo che ormai a livello estetico non ci siano più differenze tra digitale e pellicola. Credo si tratti soprattutto del modo in cui il mezzo viene usato: con il digitale penso di poter fare indifferentemente un film illuminato e messo in scena in modo molto sofisticato come un film veloce, realistico. In ogni caso a me piace un cinema leggero e spontaneo che la pellicola non permette di realizzare, tra l’altro uso spesso attori non professionisti, presi dalla strada.
Con quale budget è stato girato questo film, in quante settimane e con quante persone di troupe?
Il budget è stato di 25.000 euro e le riprese sono durate circa venti giorni ma in modo discontinuo, perché abbiamo girato soprattutto nei week-end. La troupe era composta soltanto da me, 6 tecnici e gli attori, che sono stati tutti pagati.
Credi che la possibilità di girare in digitale crei davvero una democratizzazione del sistema cinematografico malgrado l’imbuto distributivo?
Sono convinto che il digitale apra tantissime possibilità produttive, anche se il problema della distribuzione resta. Visto che è così, preferisco distribuirmi autonomamente e dare una possibilità in più ai miei film, che piacciono al pubblico e vivono molto del passaparola. Puntare sul passaparola nel circuito ufficiale delle sale è quasi impossibile, perché i film piccoli come i miei vengono lasciati in sala pochissimi giorni, un tempo insufficiente. Mi si dice poi che i miei film non vengono distribuiti perché costa troppo trasferirli in pellicola, ma io penso che non sia indispensabile questo passaggio, visto che ormai esistono degli ottimi proiettori digitali. Confido infatti nella realizzazione dei propositi dell’Anec, che in un recente convegno ha detto che moltiplicherà le sale digitali: credo che in questo modo si aprirebbe un ottimo canale distributivo per tanti giovani autori che girano in digitale ma non riescono ad avere visibilità.
Qual è il tuo prossimo progetto?
Sto montando il settimo film del decalogo, Sguardo da uomo, che parla di tre giovani donne e delle loro storie, anche questo ambientato a Milano.
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