VENEZIA – “Sì, per l’arte vale anche la pena di morire”, lo afferma Fatih Akin, in concorso a Venezia con The Cut, che parte dal genocidio armeno per raccontare una storia “di ricerca, di cammino, che non si esaurisce nel conflitto tra protagonista e antagonisti”. Siamo in Anatolia nel 1915. La polizia turca fa irruzione nelle case degli armeni, di religione cristiana, e porta via tutti gli uomini, per arruolarli, così dice, nell’esercito. Tra questi il giovane fabbro Nazaret Manoogian (Tahar Rahim), affettuoso padre di due bambine. In realtà gli armeni vengono costretti a spaccare pietre per costruire strade, quindi posti di fronte alla possibilità di convertirsi e infine, se non abbracciano la religione islamica, scannati. Scampato miracolosamente al genocidio, Nazar scopre che le sue due figlie gemelle sono ancora vive. L’uomo decide così di ritrovarle e si mette sulle loro tracce dai deserti della Mesopotamia a Cuba, fino agli Stati Uniti, Minneapolis e il North Dakota.
“Mi ci sono voluti 7/8 anni per prepararmi emotivamente al film: qualcuno mi ha minacciato, ma sono cose a cui basta non dare troppo peso. Si tratta di piccole reazioni che non hanno importanza”, racconta Akin, di nuovo a Venezia cinque anni dopo Soul Kitchen, con un film scritto insieme a Mardik Martin, storico sceneggiatore di origini armene, autore, tra gli altri, di Mean Streets, New York, New York e Toro scatenato. “Quella di The Cut è una storia vera, che ci crediate o no”, afferma Martin (classe 1936), che spiega: “Nello scrivere sceneggiature, si prende la realtà che, ovviamente, viene plasmata e manipolata attraverso il passaggio da una persona all’altra. Poi si fa confluire tutto in una figura e questo crea l’unità della storia”. Che riporta a galla la tragedia del genocidio armeno, troppe volte negata e taciuta. “C’erano alcune idee che volevo condividere con il pubblico, in particolare in Turchia. Volevo ci fosse empatia con il protagonista, o la storia. Per farlo era necessario ampliare il confine dell’identificazione, in modo di arrivare anche a coloro che negano il genocidio armeno, così da potersi identificare con il protagonista”, racconta Akin. Il regista spiega anche il percorso ‘religioso’ di Nazaret: “Prima credeva a determinati dogmi, ad una religione. Poi nella sua vita accade una tragedia, le cose lo portano a perdere la fede. Durante tutto il film il protagonista scopre la spiritualità, la speranza. Si libera dei dogmi e arriva all’essenziale, alla spiritualità: questo è il viaggio personale che ho compiuto anche io rispetto alla religione”.
Nel cast, anche l’attore armeno Simon Abkarian: “Il film di Fatih era quello che gli armeni stavano aspettando. La prima generazione ha dovuto sopravvivere, la seconda vivere, la terza reagire. Un film non basta, dobbiamo farne di più, ma c’è una lobby turca che quando può interferire con film come questi non si tira indietro”. Infine, sulla scelta di far parlare i personaggi armeni del film in inglese, spiega il regista: “L’utilizzo dell’inglese non è per questioni di marketing. Voglio avere controllo anche sui dialoghi e non parlo l’armeno. Anche Bertolucci ha girato L’ultimo imperatore in inglese, stessa cosa ha fatto Polanski con Il pianista: la cosa essenziale è questa, quando dirigo i miei attori non voglio essere interrotto ogni cinque minuti da un coach che vada lì a riprenderli perché l’accento non va bene”, spiega il regista.
"Una pellicola schietta e a tratti brutale - si legge nella motivazione - che proietta lo spettatore in un dramma spesso ignorato: quello dei bambini soldato, derubati della propria infanzia e umanità"
"Non è assolutamente un mio pensiero che non ci si possa permettere in Italia due grandi Festival Internazionali come quelli di Venezia e di Roma. Anzi credo proprio che la moltiplicazione porti a un arricchimento. Ma è chiaro che una riflessione sulla valorizzazione e sulla diversa caratterizzazione degli appuntamenti cinematografici internazionali in Italia sia doverosa. È necessario fare sistema ed esprimere quali sono le necessità di settore al fine di valorizzare il cinema a livello internazionale"
“Non possiamo permetterci di far morire Venezia. E mi chiedo se possiamo davvero permetterci due grandi festival internazionali in Italia. Non ce l’ho con il Festival di Roma, a cui auguro ogni bene, ma una riflessione è d’obbligo”. Francesca Cima lancia la provocazione. L’occasione è il tradizionale dibattito organizzato dal Sncci alla Casa del Cinema. A metà strada tra la 71° Mostra, che si è conclusa da poche settimane, e il 9° Festival di Roma, che proprio lunedì prossimo annuncerà il suo programma all'Auditorium, gli addetti ai lavori lasciano trapelare un certo pessimismo. Stemperato solo dalla indubbia soddisfazione degli autori, da Francesco Munzi e Saverio Costanzo a Ivano De Matteo, che al Lido hanno trovato un ottimo trampolino
Una precisazione di Francesca Cima
I due registi tra i protagonisti della 71a Mostra che prenderanno parte al dibattito organizzato dai critici alla Casa del Cinema il 25 settembre