Fandango in canoa tra gli aborigeni


Ten CanoesUn film parlato in “Gandalbingu” e interpretato da aborigeni Yolngu della Terra di Arnhem è l’oggetto più enigmatico finora passato al 59° Festival di Cannes. L’ha realizzato Rolf De Heer, regista a tutti gli effetti “aussie”, ma nato in Olanda, autore di opere shock come Bad Boy Bubby e Alexandra’s Project oltre che di un film, The Tracker, girato nell’entroterra australiano che lo portò a contatto con David Gulpilil, il performer aborigeno che si divide tra il mondo civilizzato e la sua terra d’origine. A Rolf e David è capitato di passare insieme alcuni giorni nella palude di Arafura per pescare e stare a contatto con l’aspra natura del bush: da quel momento di amicizia e libertà è nata l’idea iniziale di 10 canoe. Poi messa a punto osservando alcune fotografie di Donald Thompson, un antropologo che a metà degli anni ’30 fermò la vita degli indigeni in circa 4.000 scatti. Alla Thompson Collection deve molto il film che ha debuttato nella sezione Un Certain Regard e che uscirà in Italia perché tra i suoi produttori figura Domenico Procacci, una vecchia conoscenza di De Heer dato che con Fandango Australia ha finanziato diversi suoi film.
10 canoe ci trasporta in un tempo ancestrale, quasi mitico, mille anni orsono, attraverso la voce di un narratore che altri non è se non David Gulpiplil. Un gruppo di dieci uomini nudi si sta dirigendo verso la palude: vanno a caccia di oche selvatiche e per muoversi costruiranno delle canoe con la corteccia d’albero. Tra loro ci sono due fratelli, il giovane Dayindi e il più maturo Minygululu. Dayindi è scapolo, come quasi tutti i ragazzi, e desidera la moglie più giovane di Minygululu ma non può averla se non dopo la morte del fratello maggiore. Minygululu lo sa e decide di raccontargli una storia accaduta molti molti anni prima, ai loro antenati, ma in qualche modo sempre attuale per farlo riflettere.
La narrazione, che ha l’andamento lento di una parabola e l’atmosfera misteriosa di certe cose di Peter Weir, si dipana mentre assistiamo alle scene della vita quotidiana del villaggio nel continuo intreccio dei piani temporali che alternano colore e b/n: la spedizione nella palude, la raccolta delle uova d’oca, la costruzione delle canoe, l’arrivo di uno straniero minaccioso, il ratto di una delle mogli, il “makaratta” ossia la battaglia rituale che serve a risarcire una tribù offesa, la danza della morte in cui spesso si impegna lo stesso morituro cosciente che le forze lo stanno abbandonando. Per ascoltare la fine della storia bisognerà avere pazienza, come dice ironico il narratore. Messaggio rivolto all’irruento Dayindi ma soprattutto allo spettatore medio, nutrito di immagini iperveloci e messaggi da consumare nello spazio di pochi secondi, magari sullo schermo di un cellulare. 10 canoe è quasi un film-terapia, una boccata di ossigeno per il cervello e di spazio per la percezione.

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29 Maggio 2006

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