È un “giro di giostra visivo” secondo la critica indipendente che l’ha premiato a Locarno, Beket di Davide Manuli, film anomalo, irriducibile, se non per astrazione, a categorie note. Una variazione in bianco e nero a partire dal beckettiano “Aspettando Godot”, girato in tredici giorni in una Sardegna desertica che sembra investita da un’esplosione atomica, animato da presenze che l’autore milanese muove come marionette consapevoli in un teatrino en plen air: non solo i due protagonisti Freak e Jajà (Luciano Curreli e Jerome Duranteau) che partono alla ricerca di Dio stufi di un’attesa vuota e infinita, ma anche Roberto Freak Antoni, Paolo Rossi, il pugile Simone Maludrottu e Fabrizio Gifuni. All’attore, vincitore del Nastro d’argento per La meglio gioventù, abbiamo chiesto di raccontarci la sua evidente fascinazione per questo autore con cui lavorerebbe più o meno a qualsiasi condizione. Prodotto a basso budget da Bruno Tribbioli e Alessandro Bonifazi, Beket arriva finalmente in sala il 23 gennaio dopo un lungo percorso nei festival internazionali partito proprio quest’estate da Locarno.
Com’è nata la collaborazione con Manuli?
Da quando ho visto il suo film precedente, Girotondo, giro intorno al mondo, al cineclub Il Labirinto. Sono rimasto folgorato dalla potenza straordinaria di quel lavoro che mi è sembrato un meteorite caduto su questo paese. Quando ci siamo incontrati, qualche tempo dopo, gli ho dichiarato la mia ammirazione e gli ho promesso che avrei lavorato con lui.
Dovevate girare insieme “do?ping!” un progetto più volte rinviato.
In questi anni ci sono stati diversi progetti accantonati, per rifiuti ministeriali o problemi produttivi, tra cui do?ping!, un film sul ciclismo. A un certo punto, nell’attesa, Davide ha deciso di girare Beket, in tredici giorni e con pochissimi soldi. Un’esperienza che avevo già percorso molti anni fa con Un amore di Tavarelli, che era composto da tredici piani sequenza girati appunto in tredici giorni. Qui ho un ruolo piccolo, anche se molto vicino alla mia formazione teatrale. Beckett e Pinter sono i capisaldi del teatro del ‘900 e questa è stata l’occasione per fare i conti con uno di loro, anche se trasfigurato. Beket, il film, inzia dove finisce “Aspettando Godot”.
Che rapporto ha Manuli con gli attori?
È un artista puro e ha un rapporto molto libero e creativo. Io e Paolo Rossi siamo due agenti traghettatori che si parlano attraverso un televisore. Il mio personaggio viaggia su una Panda nera con un teschio disegnato sul cofano, porta gli occhiali scuri, parla in modo strano. Manuli è un cineasta puro come ce ne sono pochissimi: sarebbe bello se questo paese coltivasse i suoi talenti e consentisse loro di lavorare senza dover elemosinare per produrre un film.
Ci lamentiamo di non avere nessun film quest’anno a Berlino, ma quando il nostro cinema rischia arriva nei festival internazionali, come “Beket” a Locarno o “Il divo” a Cannes.
Il discorso sui festival è rischioso: nessuno va a Berlino, ma poi magari tra due mesi a Cannes ci saranno due o tre titoli italiani importanti. È come per gli incassi: sono variabili da non commentare ogni tre mesi perché la salute di una cinematografia non si misura su questo, ma sugli attori, i registi e gli sceneggiatori in campo e da questo punto di vista credo che sia un periodo molto buono. Certo Gomorra e Il divo, gli ultimi due film che si sono aperti con prepotenza una strada all’estero, hanno dimostrato che l’originalità dello stile e del linguaggio contano più dei contenuti.
A proposito di Berlino: nel 2002 lei partecipò al progetto Shooting Star. Come ricorda quell’esperienza?
Fu interessante. Avevo appena fatto tre film: L’amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci, Inverno di Nina Di Majo e Sole negli occhi di Porporati. Shooting Star fu l’occasione per creare contatti e fare una piccola tournée nei festival europei. Ma a livello di popolarità la vera svolta per me è rappresentata da La meglio gioventù.
Che bilancio fa del suo 2008?
Ho lavorato in teatro, al cinema e in tv. A teatro portando le lettere di Mozart insieme a mia moglie Sonia Bergamasco e a tre musicisti jazz, al cinema con Beket e con Galantuomini di Winspeare, in televisione con Paolo VI, una grande scoperta questa, perché quest’uomo, papa dal ’63 al ’78, in 15 anni in cui l’Italia cambia completamente faccia, è stato quasi rimosso dall’immaginario collettivo. E non solo perché oscurato da due figure mediatiche come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ma soprattutto perché era un uomo difficile, scomodo, non catalogabile politicamente né come progressista né come conservatore. Su di lui ci sono molte semplificazioni.
Parlando di semplificazioni, non teme che le possano affibbiare l’etichetta di attore democristiano, dopo il “De Gasperi” di Liliana Cavani e la fiction sul Paolo VI?
Le semplificazioni sono all’ordine del giorno, ma io sinceramente non le temo. Quando mi intervistavano per Galantuomini al festival di Roma erano tutti convinti che avessi fatto dodici volte il magistrato, invece era solo la seconda volta. Se Sole negli occhi avesse avuto all’epoca il successo che meritava mi avrebbero incasellato come psicopatico assassino e parricida…
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