Fabrice Gobert: “Il mio thriller sugli adolescenti, tra Van Sant e Moretti”


COURMAYEUR – E’ un thriller che non è un thriller l’opera prima del francese Fabrice Gobert Simon Werner a disparu, passata a Cannes nel Certain Regard e ora in concorso al Noir in Festival . In un paesino della banlieue parigina che assomiglia piuttosto agli anonimi sobborghi residenziali americani, nel 1992, all’improvviso scompare Simon Werner, lo studente diciottenne di un liceo. Seguito a ruota, nel giro di pochi giorni, da altri due compagni di classe di cui si perdono le tracce. Subito nel liceo si scatenano le ipotesi più disparate sulle misteriose sparizioni, che Fabrice Gobert racconta esponendo – con classe e attenzione ai dettagli – i diversi punti di vista dei vari protagonisti sulle vicende, come in una versione transalpina di Rashomon. Il regista ha parlato a CinecittàNews – media partner del festival – del film, in cerca di una distribuzione italiana, e dei suoi prossimi progetti.

Quanto c’è di autobiografico in Simon Werner a disparu?
In ogni personaggio c’è qualcosa della mia storia personale, della mia adolescenza, ma la cosa più importante è che la sparizione che è al centro del film è davvero accaduta nella mia scuola quando avevo 18 anni, scatenando la fantasia dei miei compagni su come e perché fosse accaduto. Ci ho messo 5 anni a scrivere la sceneggiatura e nel frattempo ho dimenticato quale fosse la vera versione della storia, ed ho mescolato i gossip, le fantasie e la realtà, che è poi l’intento alla base del film.

Il film nasce quindi da un fatto di cronaca. Come andò?
Sparì un mio compagno di scuola che conoscevo di vista e tutti immaginarono situazioni da film horror, o thriller, o giallo. La cosa finì sui giornali locali e due-tre settimane dopo sapemmo com’era andata: era stato ucciso da un vagabondo che conosceva, era una storia molto torbida.

L’ambientazione è molto importante, in queste villette a schiera carine ma inquietanti che ricordano un po’ le case americane di Desperate Housewives.
Ho vissuto proprio in quel tipo di case, in una cittadina alle porte di Parigi che, molto ironicamente, si chiama Plaisir (Piacere, NdR), il cui nome suona un po’ come una pubblicità menzognera. Avevo l’impressione di vivere nel mezzo del nulla; di posti come questo è piena la Francia. L’ambientazione gioca un ruolo fondamentale nelle nostre vite come nel film, dove questi adolescenti non sanno chi sono, dove vanno e cosa vogliono, ma cercano di scimmiottare un modello americano senza rendersi conto che è deprimente. Tutti vorrebbero essere dentro un film americano, ma in realtà in quei quartieri, come nelle foto dell’artista Gregory Crewdson, è tutto talmente fuori dal tempo e dal mondo che potrebbero sbarcare gli alieni e nessuno se ne accorgerebbe.

Ha usato attori giovanissimi, molti dei quali al loro primo film.
E’ stato rassicurante, perché loro, come me, erano alla prima esperienza importante al cinema. Come alcuni di loro avevo già realizzato delle serie tv, e questo ci ha facilitato. In ogni caso ero molto all’ascolto e li nutrivo con ricchi materiali: a ognuno di loro ho dato una minibiografia dei loro personaggi, con le musiche che ascoltavano e i film che amavano.

Nel film ci sono tantissime citazioni cinematografiche. Si vede anche, in una scena, un manifesto di Palombella rossa di Nanni Moretti.
Era una precisa intenzione inserire nel film tanti riferimenti cinematografici. Quello più pertinente, ma che proprio per questo non ho esplicitato, è al cinema di Gus Van Sant, mentre l’omaggio a Palombella rossa non ha niente a che vedere con lo stile del film. Piuttosto è una mia dichiarazione d’amore per quel regista e quella sua pellicola.

Quanto è stato difficile girare un’opera prima come questa in Francia?
In realtà è stato tutto molto veloce. La produzione, la 2.4.7., che aveva già prodotto Persepolis e per cui questo era il terzo film, era entusiasta della storia e l’ha relizzata nel giro di sei mesi, che sono pochissimi, senza finanziamenti del CNC né delle tv, con un budget di 2 milioni e mezzo di euro.

E’ molto interessante il miscuglio di generi. Il film parte come un thriller e diventa tutta un’altra cosa: un’indagine nel mondo degli adolescenti.
Sin dall’inizio avevo l’intenzione di mescolare generi e stili. Quando mostro il suo punto di vista, ogni personaggio è inquadrato, recita e si esprime in modi leggermente diversi anche se racconta situazioni uguali. Il mio punto di riferimento era un film cinese Devils on the Doorstep, che mescola il tono grottesco con il drammatico e passa da un genere all’altro, come fa spesso anche Quentin Tarantino.

Sta lavorando a nuovi progetti?
Sì, sto scrivendo una serie televisiva per Canal + che per protagonisti degli zombie anomali. Sono dei morti viventi che tornano tra gli uomini, ma non ne hanno la classica apparenza, sono normali, non dei mostri. E’ ovviamente una metafora. E poi sto scrivendo il mio secondo film su dei ragazzi ventenni che hanno a che fare con una guerra contemporanea. Anche qui ci sarà un mix di codici, di realismo e fantasie.

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09 Dicembre 2010

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