Il cineasta che più lo ispira è Michael Winterbottom, perché nella sua carriera non ha mai fatto un film uguale all’altro. Allo stesso modo il regista Fabio Mollo, 40 anni, ama misurarsi con nuove sfide narrative e cimentarsi in progetti diversi tra loro. “Ogni volta sento di mettere in pratica da capo l’amore che nutro per il cinema”, racconta a Cinecittà News. Ne è la prova Curon, nuova serie mystery disponibile su Netflix dal 10 giugno, che dirige insieme a Lyda Patitucci (Mollo firma i primi quattro episodi, Patitucci i restanti tre).
Girato in tre mesi e mezzo in Trentino Alto Adige, con un cast che vanta un gruppo affiatato di giovanissimi (Federico Russo, Giulio Brizzi, Luca Castellano, Margherita Morchio, Juju DiDomenico) guidati dai più maturi Valeria Bilello, Anna Ferzetti e Luca Lionello, è un progetto che non esita a definire “rischioso”, ma che risponde a un’esigenza avvertita da tanto tempo: trasportare l’intimità delle sue storie dentro al genere, di cui è un grande fan. La storia è quella di Anna, madre di due gemelli adolescenti. E’ da poco tornata nel suo paese natale, Curon, quando scompare misteriosamente.
Nel frattempo è agli ultimi ritocchi di un’altra serie, Masantonio, che andrà in onda su Mediaset: “Si tratta di un procedural drama con Alessandro Preziosi nei panni di un detective molto particolare”.
Non è la prima volta che firma una serie tv, dai tempi di Black Box per Mtv fino a Come quando fuori piove su Discovery con Virginia Raffaele. Che differenza riscontra tra la “vecchia” e la nuova serialità?
C’è una differenza enorme tra i tempi di Black Box e quelli di Curon. Prima la serie aveva un connotato di fiction minore e più elementi televisivi. Oggi le serie sono film allungati, prendono il posto dei romanzi, permettono di approfondire personaggi e linee narrative come in due ore di film non sarebbe possibile, ma con la stessa estetica del cinema. Detto questo, non ho mai avuto una serie che esce in 190 paesi come Curon. Sono emozionato.
Che rapporto ha con le nuove piattaforme come Netflix?
Come spettatore le seguo con interesse, come autore sogno di fare un costume drama alla The Crown. Diciamolo chiaramente: ormai sono vere e proprie piattaforme di cinema, le produzioni e gli show che vediamo – e che facciamo – hanno un linguaggio cinematografico. Inoltre consentono al pubblico di vedere tanti film che in sala non potrebbero arrivare, o di recuperarli. Vedo, insomma, più contaminazione che divario tra cinema e serialità.
Perché ha voluto cimentarsi con un teen drama di genere?
Sono un grande fan di Nolan e Shyamalan, i thriller, horror e mystery mi affascinano. Era tanto che volevo esplorarne anche io l’universo visivo, cimentarmi con quelle atmosfere e suggestioni. Cercavo un progetto che potesse coniugare dramma e struttura di genere per traghettarci dentro il mio mondo, fatto di racconti più intimi. Ho scritto anche Shadows, un film che ho sviluppato per cinque anni e poi affidato alla regia di Carlo Lavagna, perché si avvicinavano le riprese di Curon che è un mystery molto centrato sul coming of age. Una storia di formazione con una comunità di personaggi in cui ho potuto scavare a fondo. Sono grato a Netflix e Indiana per avermelo permesso.
Le è mancato il cinema durante il lockdown?
Moltissimo. L’ultimo film che ho visto in sala è stato Volevo nascondermi, la sera dopo è partito il lockdown. Stare chiuso in casa mi ha fatto venire una grande nostalgia del cinema, non vedo l’ora di tornarci e non credo che piattaforme e sale siano in contrapposizione: sono due esperienze completamente diverse, perché rinunciare all’una o all’altra?
Come autore ritiene che la pandemia sia qualcosa di imprescindibile da raccontare d’ora in poi?
Il cinema è lo specchio della realtà e di ciò che l’essere umano prova e vive. La pandemia resta un evento storico di una portata così profonda nella vita quotidiana di tutti noi – al pari della seconda guerra mondiale o del crollo delle Torri Gemelle – che sarebbe sbagliato rimuoverlo, dal cinema come dalle coscienze. E’ qualcosa che ha cambiato tutti e generato storie. Non dico che dobbiamo fare solo film sul Covid o imporre personaggi con la mascherina, ma conviene ragionare e raccontare il nostro nuovo stile di vita, che non sappiamo neanche quanto durerà.
Tantissimi lavoratori dello spettacolo sono in stand by, non solo gli autori. Come sta vivendo questo momento?
Con la grande incertezza di non sapere quando e come potremo riprendere a lavorare. A preoccuparci non è tanto la fase 2 o 3, ma come potremo girare nel concreto, con quali regole, perché ancora non è chiaro. Urgono risposte e normative nazionali da parte delle istituzioni per poterci tutti organizzare al meglio e tornare a lavorare.
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