FABIO CARPI


Partiamo dall’America Latina, anche se Nobel è un viaggio verso il Nordeuropa. La deviazione è giustificata: e non solo perché il protagonista, Hector Alterio, è argentino. Importante, nella carriera di Fabio Carpi, il periodo trascorso in Brasile. Un’avventura iniziata quando un industriale dell’acciaio, Francisco Matarazzo, fondò insieme a Franco Zampari un teatro a Sao Paolo. “Si chiamava – racconta Carpi – il Teatro brasileiro de comedia. Fu preso in mano dal polacco Zimbinski e da Adolfo Celi. Ebbe un enorme successo e Celi chiamò un suo compagno di Accademia, Luciano Salce, e Flaminio Bollini, milanese. A quel punto Zampari decise di fare anche cinema”. Costruì degli studi fuori Sao Paolo, a Sao Bernardo Do Campo, gli studios Vera Cruz. Alberto Cavalcanti fu il primo a dirigerli. “Io fui chiamato da Bollini, che era un mio compagno di scuola, con un contratto da sceneggiatore, mestiere che avevo cominciato con Dino Risi. In Brasile scrissi sei o sette film e stavo per esordire nella regia quando gli studios della Vera Cruz fallirono: in quel vasto territorio controllare la distribuzione era più costoso che girare.
“Era il ’54. La Vera Cruz segnò il passaggio utopistico verso il cinema novo, ma io a quel punto ero già tornato in Italia e continuai a fare lo sceneggiatore”.
E’ anche pensando al periodo delle commedie italiane al veleno, quelle con Dino Risi, o ai “classici” come una memorabile Odissea che si aggiungono altri tasselli di lettura a Nobel.
L’interesse cosmopolita di Carpi emerge anche dal cast: Hector Alterio certamente, già interprete di altri suoi film come Barbablù, Barbalù e Quartetto Basileus; l’austriaco Otto Tausig “un attore di teatro che avevo visto anni fa in una piccola parte in Notturno indiano tratto da Tabucchi” e che fa il proiezionista. Quanto a Stanislas Mehrar – che sarà Benjamin Constant in Adolphe di Benoît Jacquot con Isabelle Adjani – aveva iniziato una carriera di concertista, ma “dopo otto anni di conservatorio si sono accorti che le sue mani avevano un difetto di impostazione e ha dovuto interrompere: per lui è stato uno shock”.

In qualche modo la pista letteraria e la pista cinematografica si contrappongono nel suo film.
Sono cresciuto con la fissazione della letteratura e del cinema. Evidentemente questo ha trovato sfogo in due personaggi complementari e opposti: Alterio è tormentato dal passato, mentre chi fa il cinema, in questo caso il proiezionista, riesce sempre a rinascere.

Come ha lavorato sul testo?
In genere scrivo rapidamente, mentre stavolta ho lavorato a lungo sulla sceneggiatura. Ogni tanto la riprendevo in mano e la asciugavo, qualche scena veniva aggiunta, le battute del protagonista venivano riscritte.

In tutti i suoi film si fanno bilanci legati all’età.
E’ vero, è un tema ricorrente. Potrei dire che il mio tema principale è il tempo nel suo scorrere dalla giovinezza alla vecchiaia, l’immaterialità del tempo, il cercare di dargli un senso con personaggi che sono agli antipodi come nel rapporto padre-figlio. Invece nei miei libri, soprattutto negli ultimi come Patchwork, c’è una libertà maggiore. Un film deve avere un percorso narrativo e personaggi con un minimo di coerenza mentre la parola in un libro è più importante dei personaggi. Forse ha avuto ragione chi ha definito i miei romanzi cinematografici e i miei film letterari.

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26 Novembre 2001

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