“Non è davanti a un crocifisso che bisogna inginocchiarsi, quello è solo un simulacro. Dobbiamo invece farlo verso chi soffre, come gli extracomunitari”. Questo è il pensiero espresso da Ermanno Olmi a Venezia durante la conferenza stampa di Il villaggio di cartone, presentato Fuori Concorso, ed è anche il fulcro del film, dove un parroco disilluso (Michael Londsale) ritrova un nuovo modo di applicare la carità e la fratellanza quando un gruppo di immigrati occupa la sua chiesa che era stata dismessa dalle istituzioni.
Il film, prodotto da Cinemaundici e Rai Cinema, sarà in sala dal 7 ottobre con 01, e vede nel cast, tra gli altri, anche Alessandro Haber e Rutger Hauer, che torna a collaborare col maestro dopo un’altra opera dedicata alla Fede, La leggenda del Santo Bevitore. “Rutger è un grande attore, ma non ha il senso dei kilometri – scherza il Maestro – ogni volta che prometteva di passarmi a trovare aveva già un aereo fissato e si trovava a più di 800 kilometri di distanza”. Olmi torna al cinema di finzione a cui aveva temporaneamente rinunciato dopo l’amaro Centochiodi, del 2007.
Nel suo film la chiesa vuota e abbandonata diventa molto più utile, anche cristianamente parlando, di quando era addobbata e ricca…
E’ il mio modo di segnalare ai cattolici, dei quali io pure faccio parte, di ricordarsi più spesso che sono anche cristiani. Se non liberiamo le chiese, le case, e noi stessi, degli orpelli inutili, come possiamo entrare in relazione con gli altri? Saremmo solo maschere, uomini di cartone. E gli orpelli più pericolosi sono i conformismi culturali, i pregiudizi, che sono subdoli e nocivi.
Però, uno dei suoi clandestini diventa un kamikaze…
Chiaro che il film è un apologo, non intende essere realistico. Ogni personaggio è un simbolo. Non voglio lasciare intendere che tra gli immigrati ci siano solo santi. Sono umani anche loro, con le loro debolezze, le loro confusioni. Ma solo confrontandoci con gli altri possiamo capire chi siamo. E quel personaggio, suggestionato dal discorso di una sua coetanea, è il simbolo di chi non accetta la relazione con l’altro, né il dialogo…
Come si può avere fede in un mondo di violenza, di sofferenza e di povertà ?
La vera fede, nonché la vera cultura, consiste nell’avere un sacco di dubbi. Se non si hanno dubbi vuol dire che si è affidato a qualcun altro il nostro pensiero. A un’ideologia, a una religione. Mai delegare!
E lei, i suoi dubbi, come li risolve?
Io con Dio ci parlo. Gli faccio un sacco di domande, lo interrogo in continuazione.
E lui risponde?
No. E lo sa perché? Perché dobbiamo rispondere noi!
Qual è per lei il tema principale de Il villaggio di cartone?
La storia è sempre la stessa, anche se cambiano le modalità in cui viene raccontata in culture e momenti storici differenti. E’ la lotta tra il bene e il male, che nasce con la vita stessa. Cristo l’ha raccontata in maniera nuova, ma era pur sempre un religioso ebraico. Quando dichiarò di voler riedificare il Tempio in tre giorni non parlava di imprese edili, di riferiva alla comunità umana. Noi e gli ebrei siamo fratelli di fede. Quando parlo con i cristiani li metto sempre in guardia: ‘io sono ebreo’. Dobbiamo ritrovare la connessione per la linea spezzata, questo risolverebbe tanti problemi del mondo.
Ne La leggenda del santo bevitore Joseph Roth paragonava la chiesa all’osteria: il pane, il vino, la frasca dove ripararsi…
Non c’è niente di più importante, cristianamente parlando, dell’accoglienza. La sacralità dei simboli è nulla se non rinvia alla realtà di carne. Per questo faccio abbattere all’inizio del film il crocifisso di cartone, come rappresentazione della sua inutilità. E’ di fronte a chi soffre che dobbiamo inginocchiarci. Anche il protagonista del film dice al suo Cristo: ‘Non riesco ad avere pietà di te. Sei troppo lontano nel tempo. Sei un simulacro’. So che Cristo ha pagato per noi, ma è stato più di duemila anni fa, e oggi non basta più genuflettersi davanti alla sua immagine di cartone.
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