Ermanno Olmi ha appena terminato le riprese del suo nuovo film Il mestiere delle armi, prodotto da Rai, Canal+ e KirchMedia, con la partecipazione di Mikado, dove fatti e personaggi appartengono a un Medioevo che già prelude all’età moderna.
Prima di chiudersi “nel bunker del montaggio”, così ironicamente ama chiamarlo, il regista ha voluto parlarne, anticipandone l’uscita sugli schermi, prevista per il prossimo febbraio.
Protagonista del suo film è Giovanni de Medici, uomo d’armi, nipote di papa Clemente VII. Un cavaliere di ventura esperto nell’arte della guerra. Lei riconosce in questo guerriero del ‘500 alcune caratteristiche dell’eroe moderno?
Sono convinto che la guerra sia ancora oggi una pratica diffusa. Persino più del sesso. È il terreno, anche simbolico, sul quale si misurano mentalità diverse e dove il conflitto si rivela paradossalmente necessità vitale.
In ogni battaglia, inoltre, c’è un momento che può cambiare le sorti del mondo. È quello che lega gli appuntamenti del destino umano con quelli della Storia. Così la sensualità e la forza di Giovanni de Medici incarnano il pathos della battaglia. Lui diventa un eroe unico e ineguagliabile. Finché la sofferenza della morte lo restituisce di nuovo alla “normalità” della vita.
Perché ha scelto proprio un eroe medioevale?
Nel 1562 germogliano i primi segni del Rinascimento. Il piccolo cannone che uccide Giovanni è lo strumento bellico che sostituisce l’alabarda. E rappresenta il superamento dei codici d’onore della guerra ad arma bianca, dell’uomo contro uomo.
È un periodo che ha cambiato la Storia. Gli eserciti si sono specializzati in battaglie a distanza, con strategie sempre più sofisticate.
Un po’ come accade anche oggi. Il campo di battaglia è diventato il mercato. Ma ci sono ancora eserciti che scendono in campo con schieramenti e “armi” sempre più tecnologiche.
Individuati i nuovi eserciti, cosa sono diventati gli eroi?
Sono, come quelli di un tempo, funzionali al sistema. Per fare un esempio, oggi, Michael Schumacher è un nuovo capitano di ventura.
In questo modo il passato si ripete nel presente?
Guai a quella società che non è capace di recuperare il suo passato.
Questa frase suona come un anatema. Ma sono convinto che c’è talmente tanta carenza di tempo che il senso della memoria sia l’unico modo di nutrire il presente.
Nel suo film quindi vedremo buoni contro cattivi, eserciti schierati uno contro l’altro?
Neanche per sogno. Nel mio film ci sono solo uomini che obbediscono alle leggi delle armi. E non c’è nessuna spettacolarizzazione dell’evento guerra, stile western, per intenderci.
Ci saranno scene di massa e manovre militari, ma all’evento della battaglia ho preferito la suggestione di un esercito schierato lungo il fiume.
Il Po, che poi nel film è il Danubio. Ha girato tutto in Bulgaria?
No, lì ho recuperato una Pianura Padana che non esiste più. Ma ho girato anche a Mantova e nella sua provincia.
Sono europei anche i protagonisti. Come li ha selezionati?
Li ho scelti in relazione alla fisionomia sentimentale dei personaggi, senza farmi condizionare dallo star system.
Più chiaramente, il suo film non si riferisce a dettami del cinema Usa?
Lo stile americano è un modello egemone, me ne rendo conto. Ho visto qualche giorno fa Il gladiatore e l’ho trovato bellissimo. I miei riferimenti però sono altri.
Mi spiego. Il mondo, non solo quello cinematografico, vive respirando modelli americani. Tutti gli altri o sono da dimenticare o da mettere in un museo. Questo vale anche per l’Italia. Apparteniamo più al passato che al futuro. Eppure, per quanto mi riguarda, preferisco considerarmi archeologia autentica che formitore di tecnologia fasulla.
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