Ermanno Olmi


Con l’ultra-annunciato Moretti, è l’altro italiano in concorso a Cannes. Ermanno Olmi, settant’anni, un cinema rigoroso e pieno d’immaginazione, in competizione con un progetto ambizioso come Il mestiere delle armi, coprodotto da Cinema 11 e Raicinema con tedeschi e francesi, narrazione dell’agonia del giovane cavaliere Joanni de’ Medici e analisi della prima guerra “industriale” della storia, quella dell’invenzione della polvere da sparo. Un film sulla guerra – vedi l’intervista sul set di tamtam – ma non un film di guerra. Una parabola dove la polemica contro il progresso indiscriminato e la “nostalgia” per i tempi in cui ci si uccideva sì, ma guardandosi negli occhi si intrecciano. Nelle sale l’11 maggio, distribuito da Mikado in contemporanea a Cannes. E dunque partiamo proprio dal festival.

Non ha esitato ad accettare il concorso?
Da tempo ho un patto con i produttori: loro mi lascino libero di fare il film come voglio, io li aiuterò a venderlo.

E il festival può essere un aiuto?
Ha due facce: può anche essere una punizione. Al di là dei premi, tutto dipende da come il film verrà accolto. Però essere scelti per il concorso dà una dignità che ripaga comunque.

Come si vede accanto a Moretti?
La stanza del figlio è un film che pone Moretti al livello di maturità civile, morale e poetica che per la sua intelligenza merita.

E la gara?
Sto per compiere settant’anni, ho superato le ambizioni di gioventù e non lo dico per fare la mammola. La gara sarà importante per altri: i produttori, i giovani attori che hanno lavorato nel film.

La guerra. Purtroppo di nuovo attuale, bruciante, nello scenario internazionale.
E’ vero. Ma Il mestiere delle armi non è un film di guerra. Quasi non la mostro per non cedere agli aspetti spettacolari che violenza e sesso hanno da sempre al cinema. La guerra crea la situazione su cui desidero soffermarmi: il ferimento e la morte di un giovane condottiero di 28 anni. Certo, la guerra resta quella brutta bestia che gira per il mondo e non si ferma mai, come diceva un amico montanaro. E’ inutile farsi illusioni.

E’ la violenza che fonda la guerra a non essere estirpabile…
Sì, vorrei dilatare il concetto di conflitto… Da contadini eravamo in guerra con le stagioni o le pestilenze, ora siamo bersaglio di cecchini che ci sparano addosso a nostra insaputa: per me la pubblicità è il vero demonio.

La guerra del film segna anche l’avvento delle armi da fuoco.
Prima il soldato guardava negli occhi il nemico, ora uccide senza conoscere lo sguardo di terrore della vittima, addirittura davanti a un computer. Mentre Joanni de’ Medici agonizzava, molti generali e capitani si riunirono e proposero di bandire la micidiale arma da fuoco. Come sa, non se ne fece nulla. Forse aveva ragione Borges quando diceva: “Io non credo più nel progresso… Che sia un progresso?”.

Al cinema il progresso è tecnologia ed effetti speciali. Li teme?
Quando qualcosa viene fatto in nome della divinità tecnologica – il vitello d’oro del progresso – si traduce in veleno. E persino il corpo umano diventa una macchina sottoposta a sesso, cibo e altri supplizi come i cosmetici.

Prima Avati, ora lei: da cosa nasce la passione medievale degli autori italiani?
E’ nell’aria. E viene raccolta da autori che vivono anche mescolandosi ai passi della gente e subiscono i medesimi umori. Il mio film parla della morte, come quello di Moretti; Avati non l’ho ancora visto ma il Medioevo è un modo per riflettere sull’avvento di un tempo nuovo o supposto tale… Non voglio essere apocalittico ma vedo avvicinarsi nuvole nere.

autore
18 Aprile 2001

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