“A 19 anni nel 1973 combattevo nell’esercito israeliano nella guerra del Kippur contro gli egiziani. 35 anni dopo ero a Il Cairo a presentare La sposa siriana. E’ la prova che il cambiamento è possibile, che si può sperare”. Eran Riklis, il regista israeliano di Il giardino di limoni fuori concorso al TFF e in sala il 12 dicembre con Teodora, affida a questo aneddoto il senso del suo film che ha ricevuto all’ultimo festival di Berlino il Premio del pubblico.
Nel quotidiano scontro tra israeliani e palestinesi Salma, una vedova palestinese della Cisgiordania, sostiene una sfida impossibile, quella di opporsi con grande energia al suo nuovo vicino di casa, il ministro della difesa israeliano che intende abbattere il giardino di limoni lasciatole in eredità dal padre e che costituisce il suo sostentamento e le sue radici. All’origine dell’assurda decisione ci sono ragioni di sicurezza, ma Salma non è sola nella sua ferma protesta e raccoglie il sostegno di un giovane avvocato e la solidarietà imprevista di Mira la moglie del ministro. Se non la vittoria, la speranza s’affaccia alla fine, e soprattutto la possibilità per Salma e anche per Mira di rimettere in discussione il proprio destino e di tornare a crescere come gli alberi di limone.
Il regista, che si è ispirato a un fatto vero di cronaca, non attinge alle tinte forti e al dramma come suggerisce la vicenda e mescola con bravura tragedia e commedia, evitando che la guerra venga in primo piano.
Perché ha scelto come albero il limone?
Ho rinunciato al tradizionale ulivo che spesso è associato alla storia mediorientale, un simbolo pregno di significati ma troppo abusato. Il limone è una pianta leggiadra, che non attribuisce al film un significato metaforico, i suoi frutti sono belli e profumati e si possono mangiare.
Un lavoro il suo dalla parte dalle donne?
Non è un film femminista, non ho la certezza che se una donna fosse al potere in Israele le cose cambierebbero. Non è questione di genere ma di natura umana: c’è chi è sensibile e chi no, chi è stupido e chi è intelligente. Spesso le persone al potere, come il ministro del film, guardano al contesto generale, ma non colgono i dettagli, le sfumature. Certo le donne hanno emozioni più profonde, ma anche gli uomini vivono la sofferenza.
La maggioranza degli israeliani la pensa come Mira, la moglie del ministro della difesa?
Tante persone vogliono vivere in pace e tranquillità, ma di mezzo ci sono la storia passata e tanto sangue. Davanti a loro c’è una realtà, ma all’inizio non si rendono conto dei veri problemi esistenti e del fatto che devono essere risolti. Mira vede il giardino di limoni da casa sua, ne è incantata e si domanda che senso ha l’abbatterlo. Ma deve andare oltre e assumere un atteggiamento responsabile nei confronti della Storia, superare tradizioni e luoghi comuni.
E Salma?
Anche la donna palestinese vive un percorso di risveglio. Chi ha detto che deve vivere sempre da vedova, che non possa essere di nuovo amata. Salma apre gli occhi e ha il coraggio non solo di opporsi all’assurda legge israeliana, ma di infrangere le regole oppressive della sua comunità.
Salma vive nella Cisgiordania governata dall’Autorità nazionale palestinese, per questa ragione non ha mostrato i palestinesi che si riconoscono in Hamas?
Certo anche in Cisgiordania ci sono i loro sostenitori e avevo girato una scena di un loro simpatizzante che entra nel limoneto con una jeep e inveisce contro la residenza del ministro. Una scena che ho poi tagliato, ma sarà invece inserita negli extra del Dvd, mi sembrava troppo didattica. E ho anche rinunciato a una sequenza di coloni ebrei che bruciano un albero di limone. Il film dà una dimensione di quasi fiaba a una realtà vera, non c’era bisogno di mostrare ogni singolo elemento perché il rischio nel cinema è che per affermare tutto si finisce per non dire niente.
Come ha lavorato sul finale?
Non volevo una conclusione ad effetto, ma in sintonia con la filosofia del film che mostra la complessità dei rapporti umani. Del resto il mio lavoro non spinge troppo sulla metafora, non è triste perché non muore nessuno, anzi a tratti è ironico. Vorrei che gli spettatori s’identifichino in una storia che può essere compresa in tutto il mondo perché mette in scena l’essenza di un conflitto e dice che il dialogo è possibile.
Come è stato accolto il suo film in Israele?
Non è andato bene a differenza di quanto accaduto all’estero, il pubblico, leggendo la sinossi, l’ha forse ritenuto troppo sensibile per i temi affrontati. Per fortuna un canale televisivo del mio paese ha acquistato i diritti, tra un anno si vedrà sul piccolo schermo e mi auguro che gioverà alla mia opera.
Il cinema israeliano sembra ormai eguagliare per qualità e varietà di presenze la vostra letteratura contemporanea.
Non credo che si possa già parlare di una coscienza cinematografica nazionale. Non siamo riusciti a miscelare la grande capacità narrativa americana con la tradizione europea ricca di uno sguardo filosofico.
Nel suo prossimo film lavoro parlerà ancora del conflitto israelo-palestinese?
Porterò sul grande schermo il romanzo di Abraham Yehoshua “Il responsabile delle risorse umane”. E poi c’è l’idea di girare Play Off che narra di un bambino sopravvissuto alla sterminio nazista, dopo aver perso i genitori, che diventa prima un famoso giocatore di basket, poi un allenatore che vince con la sua squadra gli Europei di basket. E’ allora che riceverà e accetterà la proposta di allenare la nazionale tedesca per le Olimpiadi. Cuore della vicenda sono l’accettazione e il superamento del proprio passato che consentono di tornare a vivere.
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